Testimonianze sull’eccidio nazista di Bellona

ANCHE IN QUESTA PICCOLA TERRA
Testimonianze raccolte, dal Dott. Giovanni Giudicianni e dal Prof. Antonio Salerno
sull’eccidio nazista di Bellona, e riportate in un volume che, il Sindaco, Prof. Giuseppe Pezzulo offrì al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, in occasione della consegna della Medaglia d’Oro al Valor Militare.

54 Martiri

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, le truppe tedesche operanti in Italia compirono contro inermi popolazioni civili numerosi atti di violenza e di sopraffazione.Soprattutto in Campania, il crescente timore che l’insurrezione napoletana delle Quattro Giornate potesse ripetersi altrove, trasformando il territorio in un campo di battaglia infido ed insicuro, spinse i tedeschi a prevenire ad ogni costo, o a reprimere con la maggiore durezza possibile, atti di ostilità e di sabotaggio che avrebbero loro impedito di muoversi con la sicurezza necessaria per la prosecuzione delle operazioni militari. In siffatta situazione a Bellona, isolata dai centri della pianura campana dopo il crollo dei ponti sul Volturno, non poteva di certo svilupparsi un sistema complesso di resistenza organizzata. E tuttavia, pur in un quadro di cosi gravi difficoltà, si svilupparono le prime manifestazioni di insofferenza e di resistenza passiva della popolazione che si concretarono dapprima nella mancanza di collaborazione e, successivamente, nel tentativo, pressoché generalizzato, di sottrarsi al lavoro coatto sovente imposto dai tedeschi.Già ai primi di ottobre si ebbero nelle campagne bellonesi le prime vittime. In contrada Ferranzano vennero trucidati i tre fratelli Antimo, Gennaro e Giuseppe Cafaro.La tensione assumeva, quindi, con il passare dei giorni toni che destavano una crescente preoccupazione nei tedeschi. Testimonianza di questo stato d’animo era un manifesto affisso in pin parti del paese, che nel contenuto richiamava il proclama del 12 settembre del colonnello Scholl, comandante della piazza di Napoli: ogni soldato tedesco ferito o ucciso sarebbe stato vendicato cento volte.
L’episodio che scatenò la rabbia dei tedeschi accadde la sera del 6 ottobre. Due, secondo alcuni, tre, secondo altri, soldati tedeschi entrarono in un’abitazione di via della Vittoria, oggi via 54 Martiri, e tentarono di far violenza ad alcune donne. Contro di loro reagì il fratello di una di queste che, per difendersi dalle armi da fuoco dei soldati, lanciò una bomba e uccise uno dei militari. L’altro, ferito, riuscì a fuggire informando dell’accaduto il comando del reparto insediato alla periferia del paese. La mattina seguente, sul far del giorno, numerosi gruppi di militari tedeschi circondarono il paese, bloccandone le vie di accesso. Altri gruppi scatenarono una feroce caccia all’uomo, mettendo a soqquadro ogni casa. Circa duecento persone vennero catturate e concentrate nella cappella di S. Michele. Alle grida disperate delle madri e delle mogli si rispose che i loro uomini sarebbero stati condotti al lavoro. Poi, a gruppi di dieci, secondo un progetto di sterminio di massa che per la prima volta veniva inaugurato sul territorio italiano contro civili indifesi, le persone catturate raggiunsero una vicina cava di tufo e qui vennero passate per le armi. Ad uno dei gruppi vennero associati quattro militari, rimasti senza nome, probabilmente arrestati lungo il percorso dalla cappella alla cava. Cinque gruppi raggiunsero la tragica destinazione. Il sesto fu fermato ad un centinaio di metri dal luogo dell’esecuzione e cosi pure il settimo, da poco uscito dalla cappella di S. Michele. Dopo l’esecuzione, le pareti della cava vennero fatte crollare con delle mine. I corpi vennero cosi sepolti sotto un’enorme massa di terriccio che la pioggia di quei giorni rese oltremodo duro e compatto.
Nel pomeriggio dello stesso giorno il paese fu fatto evacuare e nessuno conobbe il destino dei Cinquantaquattro. Solo il 17 ottobre, all’arrivo delle prime pattuglie inglesi, il crimine consumato fu scoperto in tutto il suo orrore. Le tragiche vicende dell’eccidio riemergono dalla lontananza del tempo attraverso le testimonianze di coloro che vissero in prima persona quei giorni tremendi. I familiari di alcune delle vittime ci introdurranno in quell’atmosfera di atrocità e di sofferenze che investì loro stessi,
i loro cari e la comunità bellonese. In questo coro di voci, manca il dolore delle madri, segno di un limite che non si e mai voluto oltrepassare e che l’inesorabile trascorrere del tempo ha oggi cancellato del tutto.

Cappella San Michele
Cappella di S. Michele

Pasquale Carusone
(agricoltore, per i fratelli Giovanni e Francesco di anni 12)

In famiglia eravamo dieci fratelli. Il più grande era Giovanni, nato nel ‘15; Francesco era uno degli ultimi, del ’31. Quella mattina del 7 ottobre tutta la famiglia si trovava in casa di una conoscente in campagna. Avevamo una nostra abitazione in paese, con un giardino e una stalla. Giovanni vi stava portando delle bestie. Passarono alcuni soldati su una camionetta e, in un primo momento, si limitarono a suonare il clacson, senza fermarlo. Poco dopo ritornarono indietro e lo catturarono. Mia madre, non vedendolo tornare, si preoccupò e mandò Francesco a cercarlo, sicura che i tedeschi non avrebbero mai preso un bambino. “Tu sei piccolo. A te non diranno niente”, ripeteva, cercando di vincere le resistenze di Francesco, che non voleva andare.di sicuro sarei stato preso anch’io, con mio padre e un altro dei miei fratelli, Michele, se non fosse avvenuto un fatto che ci bloccò. C’eravamo da poco avviati verso il paese: mio padre conduceva un cavallo, io una giumenta e Michele un puledro. All’improvviso sentimmo un sibilo. Mio padre ci gridò di correre al riparo. Una bomba colpì in pieno uno degli animali, mentre noi riuscimmo a trovare protezione dietro un ulivo. Una scheggia mi colpì comunque ad un piede. Successivamente, quando sapemmo che i tedeschi stavano prendendo gli uomini, io e Michele ci vestimmo da donne e ci avviammo verso la casa in paese. Lungo la strada incontrammo un soldato tedesco che comincio a guardarci sospettoso. Quando svoltammo nella strada dove c’era la nostra casa, lui continuò a seguirci ma, ad un certo punto, si fermò a bussare ad un portone. Noi ne approfittammo per correre a nasconderci in soffitta. I tedeschi arrivarono anche alla nostra casa. “Uomini, Uomini”, chiedevano. Mia zia Giovannina, che aveva fatto nascondere it figlio sotto un materasso, per cercare di allontanarli prese dei soldi e cercò di darglieli. Loro rifiutarono e se ne andarono. Giovanni era da pochi giorni tornato dalla Croazia, dove aveva prestato servizio nelle scuderie dell’esercito. Aveva un carattere ribelle, orgoglioso. Ricordo che mia sorella, che si era sposata da poco e aveva molta biancheria femminile, gli aveva proposto più di una volta di vestirsi da donna per non farsi prendere dai tedeschi, ma lui aveva sempre rifiutato nettamente: “Sono nato uomo e farò l’uomo”, ripeteva. Francesco era un ragazzo tranquillo, raramente si allontanava da casa. Una volta vennero da noi alcuni tedeschi che volevano qualche gallina. Lui andò nel pollaio, ne prese due e gliele diede. Ricevette in cambio un paio di scarpe, di cui andava fiero. Erano le stesse scarpe che portava quando fu ucciso. Per molti giorni non sapemmo che fine avessero fatto Giovanni e Francesco. Ogni tanto ci arrivavano voci che erano stati visti sulle montagne vicino Camigliano. Un giorno venne a casa un amico di famiglia e ci disse che in una cava di tufo, appena fuori il paese, c’erano numerosi morti. Mio padre, a quel punto, cominciò ad avere il tragico sospetto che anche Giovanni e Francesco fossero li dentro. Percio, quando arrivarono gli Alleati, lui e mio fratello Secondino corsero alla cava. Non ebbero particolare difficoltà ad identificare Giovanni. Prendemmo allora delle tavole di legno dal mio letto e facemmo costruire una bara. Non fu facile invece riconoscere Francesco. Riuscimmo a capire che era lui da alcuni
pezzi di stoffa usati per rattoppare la camicia che aveva addosso. Giovanni non aveva alcun tipo di ferita sul corpo. Probabilmente, quando arrivò sulla cava, intuì quello che stava per accadere e si buttò giù. Morì comunque per lo scoppio delle mine che fecero franare le pareti di tufo.Francesco aveva il foro di una pallottola giusto sulla fronte.Di Giovanni ricordo il suo attaccamento alla famiglia. Capitava a volte che si fermasse a mangiare con i suoi arnici in una trattoria del paese. In queste occasioni non tralasciava di portare qualche cosa anche a casa Francesco aveva dodici anni, ma ne dimostrava di più. Era alto, ben messo, lavorava come una persona adulta. La sua morte fu per noi particolarmente dolorosa, anche per le circostanze in cui maturò. La mia povera mamma, finchè visse, si consumò nel rimorso di aver contribuito a quella tragica fine.

Gabriella Caputo
(Casalinga, per il marito Lorenzo Petriccione)

Mio marito lavorava come guardia al carcere mandamentale di Capua. In quei primi giorni dell’ottobre 1943, quando la sera tornava da Capua, andava a dormire nella galleria dell’acquedotto di “Cataruccio”, poco lontano dal paese. Li ce n’erano in tanti, nascosti per sfuggire ai tedeschi. La sera del 6 mi mandò a dire che, percorrendo un eanale di scolo sotterraneo, era andato a finire in una cantina sotto il giardino di “Rusenella ‘a Peruta”. Durante quella notte bombardarono due-tre volte. Si sentiva sparare da lontano e anche noi scendemmo a rifugiarci in cantina. La mattina del 7 rientrammo tutti a casa. I tedeschi, passando dalla strada, videro da una finestra mio marito che faceva colazione. Allora lo chiamarono. lo mi precipitai immediatamente verso i soldati dicendo che avevo quattro bambini e niente da mangiare. Erano in due e uno di loro mi rispose che l’avrebbero portato a lavorare e che l’indomani sarebbe tornato a casa. Se salivano sopra avrebbero preso altri tre giovani di Capua. Dissi che non c’era nessun altro. Appena uscirono, rientrai in casa, presi con me la bambina e gli corsi dietro. Arrivai alla cappella di S. Michele. Fuori la cappella c’erano tutti i familiari di quelli che erano stati presi. Cercai di entrare, ma i tedeschi non mi fecero passare. Allora rimasi li fuori ad aspettare con la bambina in braccio. Fu tra i primi dieci che uscì mio marito. Pioveva. Dissi a Lorenzo che sarei andata a prendergli un cappotto e lasciai la bambina a “Puppenella ‘e Putruzzella”. Tomai a casa, presi il cappotto e scesi di nuovo in strada. Nel frattempo, li avevano portati tutti e dieci verso fuori Bellona. Correndo arrivai fino alla casa di don Andrea Anziano. Non c’era anima viva nella strada. Un tedesco minacciò di spararmi. Tornai verso la chiesa, presi la bambina e rientrai casa. E allora incominciai a piangere. Li presero presto, poco prima delle sette. Alle dieci ci fu un bando con il quale si avvisava che chi per le due era ancora in paese sarebbe stato fucilato. Sfollammo perciò a Camigliano dove dormivamo in una stalla. Ogni tanto tornavo a Bellona per vedere se Lorenzo era rientrato e non avevo paura di niente, nè degli inglesi che bombardavano dal ponte Annibale, nè dei tedeschi che andavano a nascondere le armi nella zona delle “Cammarelle delle Fate”. Gli inglesi entrarono in paese il 17 ottobre ed io, dal 7 fino al 16 ottobre, ho fatto questo. Un giorno dissi alla moglie di Remo, morto anche lui nei 54, di prendere le fotografie e di andare al campo di concentramento di Camigliano, che era nella località Monticello. Lungo la strada le masserie erano piene di tedeschi. Noi facevamo il saluto perchè si diceva che erano fascisti. Arrivammo al campo di concentramento. Fuori stava una sentinella. Prendemmo le fotografie e chiedemmo: “Guardare, lavorare questi qui?”. La sentinella prese le fotografie ed entrò nel campo. Poco dopo uscì e ci disse che lì non c’erano.Quando fu il giorno 16 dissi a mia madre che volevo tornare a casa, che non volevo restare più là. La mia povera mamma mi venne ad accompagnare. Avevo sempre la speranza che Lorenzo tornasse. Nel portone di mia madre c’erano due tedeschi che si stavano facendo la barba. Il paese era tutto minato ed aspettavano di farlo saltare in aria non appena sarebbero entrati gli inglesi. Quando fu notte, verso le quattro, mia figlia mi chiese da bere. Mi alzai. All’improvviso ci fu uno scoppio spaventoso e ci ritrovammo in una nuvola densa di polvere che ei soffocava. Erano le sei che uscii fuori dal portone di mio padre e vidi tutte macerie. Verso le nove si sendì che erano arrivati gli inglesi. Tutti cominciarono ad uscire, ma fino a sera non vidi mio marito. Il lunedi nemmeno si vide nessuno di quelli che erano stati presi. Il giorno successivo, martedi 19, si diceva per Bellona che tutti quelli presi il giorno 7 erano stati fucilati dai tedeschi nella cava di Giovannino “o’ scialone”. Corremmo tutti la a vedere. Quando arrivammo sulla cava il suolo era compatto come quello di un cortile e non si andava a pensare che lì sotto c’erano 54 morti. Quel giorno, chi con ii piccone, chi con la zappa, chi con la pala, si cominciò a scavare finchè uscirono i primi morti. II giorno successivo tornammo lì sopra e fino alla sera si rinvennero 21 corpi. In mezzo a quei 21 riconobbi it dott. Rucco e don Giovannino Limongi. La puzza era terribile, stavano ancora gli inglesi e fecero smettere di scavare. Appena gli inglesi si allontanarono andammo al Comune a chiedere che si riprendesse a scavare. Mio marito uscì il 21 ottobre. Fu tra i primi ad essere ucciso e uscì per ultimo. Non potevamo vestirli. Appena li toccavi si disfacevano con tutta quella terra umida che li aveva ricoperti. Ogni volta che andavo lì sopra portavo con me un lenzuolo di tela d’Olanda pensando che, se non avessi potuto vestirlo, almeno avrei potuto adagiarlo sul lenzuolo nella cassa.Riconobbi Lorenzo da sopra la cava. Non servì vedere i documenti. Mio marito la mattina del 7 ottobre aveva indossato una camicia con una sottilissima righettina. Aveva una giacca grigia a quadroni con i pantaloni ed i calzini dello stesso tipo. La giacca e i pantaloni si erano fati scuri,ma io riconobbi i calzini e la camicia. Avrei voluto buttarmi giù. Don Gaetanino Limongi mi prese per la mano.
“Non vi preoccupate”, mi disse, “ve lo faremo vedere quando lo portiamo sopra”.La cassa era stata portata giù, si fecero dare il lenzuolo e lo tirarono su con la carrucola. Allora chi moriva in qualche disgrazia non lo facevano entrare in Chiesa. Lungo la strada della Madonna degli Angeli, lo portammo direttainente al cimitero.

Giuseppe Filaccio.
(Muratore, per il figlio Gennaro)

Ho fatto il muratore per tutta una vita. Fino a qualche anno fa facevo ancora piccoli lavori per la mia casa che ho tirato su dopo la guerra, quando già si usava it cemento. Riuscivo a mantenere decorosamente mia moglie e i miei tre figli, Antonio, Cristina e Gennaro che sarebbe stato poi ammazzato dai tedeschi quel mattino del 7 ottobre 1943. Gennaro aveva 12 anni quando incontrò padre Luca, che era un passionista. Ricordo che eravamo da zia Leonilde, una signora conosciuta in tutto il paese perchè preparava i ragazzi al catechismo. Gennaro fu colpito dalla figura di padre Luca e da quel momento espresse più volte il desiderio di farsi anche lui passionista. Aveva incominciato da poco a darmi una mano nel mio lavoro. Mi riempiva di malta la “cardarella” ed aveva imparato ad usare anche la cazzuola. Poi la vocazione, un po’ alla volta. Ne parlai spesso con mia moglie e alla fine decidemmo di assecondare la sua decisione. Gennaro era buono e dolce. Sembrava fatto apposta per fare il prete. Ed io ero contento e dentro di me spesso pensavo con orgoglio: “Guarda un po’, il figlio di un muratore che diventa prete!”. E cosi lui entrò nel seminario dei padri passionisti di Calvi Risorta. Qui studiava e svolgeva tutte le attività dell’Istituto assieme a tanti altri ragazzi. Io andavo spesso a trovarlo, il piu delle volte la domenica. Montavo in bicicletta e raggiungevo dopo circa un’ora Calvi Risorta. Però, quando dovevamo portargli qualcosa da mangiare, prendevo a noleggio il carrozzino di “Percuoco”, lo caricavo di tanta bella roba e, assieme a mia moglie, partivo per il
seminario. Talvolta si faceva tardi e non era consigliabile mettersi di sera sulla via del ritorno. E allora ci si permetteva di dormire in seminario. Altre volte erano i frati passionisti che venivano da noi a Bellona ed era una gran festa. Sistemavano l’asinello vicino casa nostra e restavano con noi per qualche ora. Ricordo che ad uno di loro piaceva in modo particolare il pane cotto che era buono, perchè il pane era fatto in casa ed era condito con l’olio delle nostre olive. Qualche giorno prima del 7 ottobre, durante una delle mie visite al seminario, Gennaro mi chiese di tornare a casa. In un primo tempo pensai ad un momento di debolezza di mio figlio e cercai di convincerlo a rimanere, preoccupato della brutta figura che avremmo fatto in paese. Ma Gennaro precisò subito che il padre priore, allarmato dai bombardamenti sempre più frequenti nella zona, aveva deciso di inviare una lettera a tutti i genitori dei ragazzi ospitati in seminario, pregandoli di tenere i propri figlioli a casa finchè non fosse passata la guerra. Ci consultammo allora con padre Remigio, anch’egli originario di Bellona, che ci confermò la decisione del priore e, insieme a lui, lasciammo il seminario. A casa ci fermammo un paio di giorni, giusto il tempo per organizzare il trasferimento presso alcuni parenti a Pontelatone, dato che anche a Bellona, con il passare dei giorni, i bombardamenti si erano fatti piu intensi. Ritornammo di nuovo a casa il 5 ottobre. Il paese era pressochè deserto. La gente era nascosta nelle soffitte, nelle cantine e nei ricoveri di fortuna. Anche noi ci sistemammo nella cantina della nostra casa. Stavamo li nascosti come gli altri ad aspettare che la guerra passasse. Dell’esito dei combattimenti nulla sapevamo, ma avevamo capito che la guerra tendeva a spostarsi verso Roma e che prima o poi dovesse passare oltre il nostro paese. Avevamo saputo che Mussolini non comandava più. Lo avevamo capito dai soldati italiani che scappavano di qua e di là. E la gente non aveva manifestato alcuna reazione a questa notizia: nè di gioia, nè di disperazione. Con lui si stava male e per trovare un po’ di lavoro
la gente era costretta ad emigrare in paesi molto lontani.La mattina del 7 ottobre, sul far dell’alba, sentimmo
bussare. L’ora insolita e la violenza dei colpi ci fecero subito capire che erano i tedeschi. Mia moglie voleva andar su ad aprire, ma subito Gennaro si fece avanti e convinse la madre a restare nel suo nascondiglio per evitare che i tedeschi potessero portarla via per qualche lavoro. Lui, invece, con t’abito di passionista addosso, non l’avrebbero mai preso. E cosi andò ad aprire. “Su, vieni con noi! Dobbiamo andare a lavorare!”, sentimmo distintamente dalla cantina dove eravamo nascosti. E da quel momento non lo vedemmo più. Venimmo successivamente a sapere che i tedeschi, vedendolo vestito di abiti religiosi, pensarono di utilizzarlo per convincere altre persone a non avere alcuna paura, perchè si andava a scavare trincee e a fare altri lavori. E molti, purtroppo, credettero a questa bugia. Anche noi credemmo alle parole dei tedeschi e così, all’inizio, non ci preoccupammo di non vederlo tornare. Tra l’altro, qualche giorno prima, si era diffusa la voce che i religiosi non venivano neanche impiegati nei lavori militari, ma venivano concentrati tutti a Roma, senza che noi ne conoscessimo il perchè. La preoccupazione però incominciò a farsi sentire successivamente, un po’ perchè si era saputo che nei giorni precedenti i tedeschi avevano ammazzato alcuni contadini, un po’ perchè le notizie sulla destinazione delle persone catturate la mattina del 7 ottobre si facevano di ora in ora sempre più confuse e contraddittorie. Chi diceva di averle viste a Cassino, chi a Mignano, chi in direzione di Roma su automezzi militari. Ma alcuni incominciarono a parlare della terribile verità; erano voci isolate, ma che nella generale confusione di quel momento destarono una enorme tensione. Poi, quando arrivarono in paese gli inglesi e gli americani, le voci divennero di colpo più insistenti e allora corremmo tutti alla cava di Giovannino “o’ scialone” e incominciammo a scavare con i picconi, le zappe, ed alcuni anche con le mani. Ricordo che quando trovammo il corpo di Raffaele Manco, il fratello Antonio che si trovava li a scavare con noi emise un grido forte e disperato che si sentì fino in paese: “Oh, povero fratello mio!”. Poi altri corpi vennero tirati fuori. Ma dopo qualche giorno le autorità militari alleate sospesero lo scavo perchè temevano la diffusione di qualche malattia. Ma la gente si oppose a questo provvedimento e corse al Comune a protestare. E cosi le operazioni di recupero ripresero. Quando si ritrovava un cadavere, lo si tirava su e lo si poneva sul ciglio della cava. Non lo facevano toccare e lo mettevano cosi, sporco di fango, in una cassa di fortuna, costruita con assi di legno recuperate qua e là. I familiari stessi lo portavano poi al cimitero.Già prima che il corpo di Gennaro venisse scoperto, convinto ormai che anche mio figlio fosse li sotto, chiesi a Fiorentino Ciriello, falegname, di mettere su qualche tavola per preparare la cassa. Quando venne estratto dal terriccio della cava, il corpo di Gennaro venne adagiato in questa cassa ed io stesso, assieme ad un parente, lo portai al cimitero a spalla lungo il sentiero che passa vicino alle “Camerette delle Fate”.Gennaro era un ragazzo dolce e mansueto. Ciò che più ricordo di lui è una lettera che egli ci scrisse alcuni giorni dopo che era entrato in seminario. In questa lettera, che forse ancora conservo in qualche cassetto, c’e scritto: “Caro papà, non potrò più aiutarti a fare il muratore, ma ogni sera reciterò una preghiera per tutti voi, perchè pregare sarà l’unica cosa che saprò fare”.

Assunta Simeone
(Casalinga, per il padre Ciro)

Papà era impiegato al Comune di Capua. Faceva it messo comunale ed era veramente un bell’uomo. Alto, snello, andava spesso a caccia. Ma praticava anche la pesea, come tanti capuani. E poi sapeva suonare anche la chitarra. Spesso canticchiava. Era un canto sussurrato, attraversato talvolta da intonazioni di mestizia e di sofferenza. Ogni tanto si fermava, sorseggiava un po’ di vino e poi riprendeva. Era bello sentirlo suonare Mia madre lavorava al Pirotecnico e mia sorella, che dopo la morte di papà si sarebbe sistemata in America, sapeva di taglio e cucito. Era una brava sarta e aveva molte clienti. Poi c’era mio fratello Mario. Gli volevano tutti bene. Aveva un bel carattere: leale, sempre contento e molto serio.Era una famiglia felice la mia. Di soldi non se ne vedevano tanti. Ma vivevamo una vita decorosa e tranquilla. L’ntraprendenza di mio padre ci garantiva contro la miseria di quei tempi. Ricordo che d’estate impiantava sulla riva sabbiosa del Volturno, nella zona dell’attuale via Pomerio, un vero e proprio chalet, attrezzato di ombrelloni e cabine. Non potendo andare al mare per la mancanza di mezzi di trasporto, la gente veniva a questa piccola spiaggia: le donne al mattino, gli uomini al pomeriggio, e faceva comodamente il bagno in un tratto del fiume che mio padre aveva precedentemente recintato con una rete. Gli dava una mano un signore con il quale papà divideva ogni sera l’incasso. Lui veniva al mattino. Papà, invece, usciva dall’ufficio alle tre del pomeriggio, mangiava velocemente un boccone a casa e poi raggiungeva il suo chalet sul fiume. Con la guerra tutte queste belle cose sparirono. Mio fratello fu chiamato a prestare servizio militare in aeronautica. Divenne motorista e lo mandarono all’aeroporto di Cagliari Elmas. I bombardamenti su Capua si intensificarono di giorno in giorno e avevano di mira prevalentemente il Pirotecnico, la stazione ferroviaria e l’aeroporto militare.Decidemmo allora di trasferirci a Bellona perchè volevamo essere più al sicuro. Qui non conoscevamo proprio nessuno. Ci sistemammo in una casetta da dove era possibile accedere ad un vicino ricovero, una cantina in tufo ricavata quasi sotto l’abitazione, come ce n’erano tante in quel periodo. Era buia e piena di umidità. Lì nel ricovero incontravamo spesso il reverendo D’Aquino che proveniva anche lui da Capua e con il quale passavamo ore intere a pregare. Quando suonava l’allarme lasciavamo l’abitazione e ci rifugiavamo nella cantina. Papà non stava sempre con noi. Il lavoro lo teneva impegnato a Capua. Ma spesso veniva a trovarci. Quella mattina del 7 ottobre, purtroppo, si trovava a Bellona. I tedeschi entrarono in casa e. con la brutalità che tutti conoscevano, lo portarono nella piazza principale del prese, dove già erano stati concentrati altri uomini catturati qua e là. Il cielo era nuvoloso. Cadeva una pioggerella sottile ed insistente. Mia madre prese un cappotto e corse in piazza. Pensava che papà potesse averne bisogno perchè probabilmente lo avrebbero portato a lavorare chissà dove. Era già avvenuto in precedenti occasioni che i tedeschi obbligassero i civili a scavare trincee, a riempire fossati e a fare altri lavori militari. Ma in piazza non trovò più nessuno. Gli uomini erano stati trasferiti in una piccola chiesetta lì vicino. Fuori c’erano molte donne tenute a bada da alcuni soldati. Lì, ho raggiunto mia madre che aspettava di veder uscire papà. Quando i tedeschi lo hanno portato via, noi abbiamo tentato di seguirlo, ma siamo state bloccate energicamente, al punto che se avessimo insistito, i soldati avrebbero probabilmente ammazzato anche noi. Non abbiamo sospettato di niente ed il trascorrere dei giorni senza vedere tornare quegli uomini non destava eccessive preoccupazioni. Prima o poi avrebbero fatto ritorno a casa. Era già capitato altre volte. Ma qualcuno conosceva la terribile verità. Forse aveva visto, forse aveva sentito raccontare da altri quanto era avvenuto quella mattina. Lo prova la circostanza che, appena gli Inglesi sono arrivati a Bellona, tutto il paese è corso sulla cava. Quando è stato recuperato il corpo di papà noi eravamo tornati a Capua. A piedi, assieme a mia madre e a mia sorella, sono ritornata a Bellona. Il riconoscimento avvenne al cimitero, dove il corpo di papà era stato momentaneamente sistemato. Preparammo una bara di fortuna, fatta di assi raccolte qua e là, e su di un carretto la salma venne definitivamente trasferita al cimitero di Capua. La vita diventò di colpo dura e difficile. Tre donne sole, una famiglia senza un uomo, senza una guida. E come se tutto ciò non bastasse, arrivò in quei frangenti la terribile notizia della morte di mio fratello, avvenuta qualche tempo prima all’aeroporto di Cagliari. Mario faceva parte dell’equipaggio di un S-79 che si apprestava ad una missione di bombardamento. L’ aereo, sovraccarico di bombe, ebbe difficoltà nella fase del decollo e si scontrò con un altro aereo che stava per atterrare. Aveva ventidue anni! Le sue spoglie riposano oggi nel cimitero di Capua nello stesso loculo che custodisce i resti di nostro padre.

Luigi Perileri
(Agricoltore, per il fratello Michelangelo)

Michelangelo era sordomuto dalla nascita. All’ottobre del ’43 aveva trentasei anni. Da ragazzo aveva frequentato a Napoli una scuola per sordomuti dove gli avevano insegnato anche ii mestiere di falegname. Tornava in paese solo per le feste e per le vacanze estive. Poi non volle più studiare e se ne tornò a casa dove aiutava volentieri nostro padre nel lavoro dei campi. In particolare, si prendeva cura delle nostre due mucche con le quali faceva ii giro del paese. Con il campanaccio al collo le due bestie richiamavano i’attenzione della gente che si avvicinava a prendere il latte.Se la cavava bene, guadagnava bei soldini che in quel periodo si rivelavano estremamente utili all’economia della famiglia. Pur con la sua minorazione, riusciva ad essere socievole con tutti. Gli piaceva lavorare ed era forte come un bue. Si recava in campagna anche la mattina dei giorni festivi, consentendosi un po’ di riposo solo al pomeriggio della domenica, quando era solito passeggiare con i suoi amici per le vie del paese. Riusciva a farsi intendere molto bene da noi. Avevamo imparato i suoi gesti ed il suo modo di esprimersi. E poi, in caso di difficoltà, lui prendeva carta e penna e si faceva capire scrivendo.Io lo ricordo bene, come se l’avessi davanti agli occhi. Tra di noi c’era un gran bel rapporto. Diceva che non si sarebbe mai sposato per la paura di avere un figlio sordomuto come lui. La mattina del 7 ottobre mi trovavo in via della Vittoria, nell’abitazione del mio amico Lorenzo Fusco, soprannominato “Passarone”. Qui mi ero rifugiato da solo per sfuggire al lavoro obbligatorio che con crescente frequenza i tedeschi ci imponevano. La mia famiglia era invece rimasta nella vecchia casa paterna, al Monticello. La casa di Lorenzo si prestava molto bene come nascondiglio, perchè aveva due vie di fuga: una che portava in paese, l’altra in direzione dei campi. La madre di Lorenzo sostava volutamente nelle vicinanze della casa e quando vennero i tedeschi alzava, ad arte, la voce per avvertirci: “Camerata – disse – qui non c’è nessuno”. Allora, noi che eravamo nascosti in soffitta, tirammo su pian piano la scala di legno appoggiata alla botola. I tedeschi frugarono dappertutto, anche sotto la paglia ed il letame della stalla. Dopo che i soldati furono andati via volli raggiungere i miei al Monticello. Lì seppi che i tedeschi avevano portato via Michelangelo e che a nulla era valsa la resistenza di mio padre: “Non prendete mio figlio. Non vedete che e muto? Vengo io a lavorare con voi”, aveva detto ai tedeschi. Ma i soldati non vollero sentire alcuna ragione e portarono via Michelangelo nella cappella di S. Michele. Nessuno pensò alla tragedia che si stava consumando, neanche quando a gruppi di dieci si videro uscire dalla chiesetta le persone catturate. Si pensò, in quel momento, che i gruppi sarebbero stati smistati per lavorare in posti diversi La sera dello stesso giorno ci siamo rifugiati a Camigliano dove mio padre conosceva don Ciccio lovino, che sarebbe diventato poi sindaco del paese. Dopo un paio di giorni ci raggiunse don Carmine Catone, parroco del vicino paese di Vitulazio. I suoi fratelli erano stati tutti uccisi. Mia madre, anch’essa di Vitulazio, lo riconobbe subito. Don Carmine ci salutò e ci disse che era venuto a far visita a don Ciccio. Poi ci raccontò una strana storia. Era stato avvicinato da un ufficiale tedesco che lo aveva pregato di celebrare una messa nei pressi di una cava, al confine tra Bellona e Vitulazio. In questa cava, diceva il militare, pochi giorni prima erano state ammazzate 54 persone. Il rimorso di aver contribuito alla morte di quegli infelici era tale che l’ufficiale tedesco non riusciva piu a dormire. Mia madre penso subito a Michelangelo, ma don Carmine le rispose che nulla sapeva sull’identità di quelle persone.A sciogliere l’angoscia sulla sorte di Michelangelo provvide Giuseppe Fusco, denominato “Zi Peppe o’ russo”, per il colore dei suoi capelli e della carnagione. Zi Peppe era stato anche lui catturato dai tedeschi ed internato nella cappella di S. Michele; ma, per sua fortuna, era stato rilasciato. Il 17 ottobre gli inglesi entrarono in Bellona e da lì a qualche ora ebbe inizio il recupero dei cadaveri. Il corpo di Michelangelo venne estratto due-tre giorni dopo. Poi lo scavo venne sospeso dagli inglesi per ragioni sanitarie, ma riprese di lì a poco per la pressione esercitata dai Bellonesi sulle truppe alleate. Per togliere la terra prodotta dallo scoppio delle mine fatte brillare dopo 1’esecuzione, ci si serviva dei “cestigliucci”. recipienti di vimini tipici della zona, che venivano passati di mano in mano da una lunga fila di uomini, prima di essere svuotati. Si scavava con picconi, pale e con tutto cio che servisse a rimuovere la terra. Talvolta, per disperazione, anche con le mani.

Maria Angela Della Cioppa
(Casalinga, per il marito Francesco Villano)

Ci sposammo nel 1940. lo abitavo a Pontelatone, dove ero nata, ma spesso venivo a Bellona a trovare mia nonna. E lì vicino abitava lui, Francesco, il prmo di quattro figli di una famiglia di agricoltori. Ci vedevamo spesso. Diventammo amici. Ci volevamo bene. Ma era un bene fraterno, di quelli che lasciano pensare solo ad una grande amicizia. Almeno cosi mi sembrava. Poi un bel giorno lo vidi arrivare a Pontelatone in bicicletta. E il giorno dopo fece la stessa cosa, e così pure nei giorni successivi. E allora incominciai a pensare, a sospettare e a sperare. E cosi, quando ebbe a ripetermi per 1’ennesima volta “Vedrai che prima o poi di porterò via, lontano da queste montagne”. io gli risposi di getto: “Ma cosa aspetti a portarmi via?”.
Ci sposammo a Pontelatone e andammo ad abitare ad Aquino, nelle vicinanze di Cassino. dove Ciccio prestava servizio come vice-brigadiere della locale stazione dei carabinieri. Aveva tante belle qualità. Di carattere era molto affettuoso, non solo con noi della famiglia, ma con tutti. Era rispettoso, ma sapeva anche farsi rispettare. Fisicamente si presentava bene; era insomma un bell’uomo. Il periodo vissuto ad Aquino non lo dimenticherò mai. Ogni sera facevamo una passeggiata per tutto it paese. Andavamo alla stazione ferroviaria, spesso da qualche amico, a volte in campagna. Mi chiamavano la moglie del brigadiere. La gente era infatti colpita dalla divisa di mio marito ed io mi sentivo gli occhi addosso quando passeggiavo con lui. Ero piena di orgoglio e, forse, c’era anche un po’ di vanità. Nell’aprile del 1942 nacque Pierino, che sarebbe poi diventato Sindaco di Bellona. A metà del ’43, Ciccio venne trasferito a Brindisi, mentre io restai in paese con il bambino. A settembre mio marito tornò a casa in licenza.La mattina del 7 ottobre eravamo nascosti nel ricovero della “Signorinella” che si trovava proprio vicino alla piazza principale del paese. Con me portavo il bambino che aveva diciannove mesi. Ad un certo punto, sul far del giorno, incominciò a sentirsi un trambusto e capimmo subito che erano i tedeschi. Dicevano di cercare uomini da mandare al lavoro. Un uomo che era nel ricovero con noi propose a Ciccio di scappare con lui. Ma mio marito rispose che preferiva restare. Luomo allora andò via, scavalcò un muro lì vicino e riuscì ad allontanarsi attraverso un cunicolo. Vennero due soldati che presero mio marito e it doff. Rucco, medico del paese. Catturarono anche il parroco don Andrea Rovelli che era uscito dal ricovero convinto che, essendo religioso, non I’avrebbero mai portato al lavoro. Quando i soldati stavano per portar via Ciccio, io cercai di impedirlo. Mi aggrappai a lui assieme al bambino e non lo volevo lasciare. Ma, mentre uno dei militari strattonava mio marito, l’altro mi colpi le mani con il calcio del fucile. In preda ad una profonda inquietudine andai verso la cappella di S. Michele dove gli uomini erano stati concentrati. “Dove volete portare mio marito?” chiesi più volte gridando. Ma dai tedeschi nessuna risposta. Poi Ciccio uscì dalla cappella insieme ad altri, in un gruppo di dieci. Allora io gli corsi dietro ma venni bloccata dai soldati al “Pozzo della via”. Dopo quasi un’ora tolsero it blocco e, con il cuore in gola, mi avviai correndo lungo la strada dove Ciccio era stato portato. I tedeschi mi bloccarono di nuovo, vicino alla casa dei Pezzulo dove era sistemato il loro comando. Con me avevo portato del pane e un cambio di biancheria intima. Pensavo che lui ne awtbbe avuto sicuramente bisogno perchè quella mattina cadeva una pioggia leggera ma insistente. “Dove avete portato mio marito? Ditemi dove! Gli ho portato da mangiare”. Ma uno dei militari, indicando con un impercettibile gesto del capo la cava poco distante, rispose: “Tornate a casa. Hanno già mangiato. Hanno mangiato bene”. Volsi lo sguardo verso la cava e vidi in lontananza un militare che con una pala raccoglieva qua e la il terriccio e poi lo buttava giù nel fondo. lo non sospettai di nulla. Pensavo che mio marito fosse stato portato altrove. E così me ne tornai al ricovero per riprendere Pierino che avevo affidato ad una signora. Passavano i giorni e nessuno degli uomini catturati era ancora tornato. Incominciarono a circolare le voci più strane e confuse. Alla fine li ritrovammo. I corpi erano ammucchiati l’uno sull’altro in un grappolo disordinato, dove le gambe di uno si confondevano spesso con quelle di un altro. Riconobbi Ciccio dal ciglio della cava. Michelino Liguori, solo per darmi coraggio, mi diceva che sbagliavo. Ma notai il braccio che era stato ingessato qualche giorno prima a mio marito. Poi il corpo fu tirato su. Ciccio aveva l’altro braccio frantumato dai proiettili, i denti spezzati e un foro enorme sotto il collo. Mi sono avvicinato a lui, volevo toccarlo, stringerlo forte, ma non me l’hanno consentito. Sembrava impossibile che in quei poveri resti ci fosse stato fino a qualche giorno prima un uomo cosi vivo come mio marito. Impietrita dal dolore, lì per lì non riuscivo neppure a piangere. Mi tiravo i capelli, parlavo tra di me, senza capire cosa dicessi. Mi sentivo sola, distante da tutti, con un dolore che stentava ad uscire dal petto per esplodere. Per me non c’era ormai più nulla. Tutto era finito. Era scomparsa in un attimo tutta la felicita di una giovane moglie, sostituita nel modo piu violento da un’angoscia senza fine.. Nei giorni successivi mi chiusi in un silenzio assoluto. Non sentivo niente e nessuno. Mi sembrava di essere sola in un deserto di gente che pure si prodigava per starmi vicino. Ma dovevo darmi forza, dovevo reagire, fare qualcosa. Me lo chiedeva Pierino che era ciò che di più vivo e più bello mi rimaneva di mio marito. E Pierino era al centro delle attenzioni e delle preoccupazioni non solo dei miei familiari, ma anche di quelli del mio defunto marito. Bisognava che mio figlio crescesse lontano dalla tragedia che aveva colpito la nostra famiglia, che si ricostituisse subito per lui una guida e un sicuro punto di riferimento. E cosi nacque l’idea del matrimonio con Peppe, fratello di mio marito, in modo che attorno al bambino rimanesse lo stesso ambiente familiare entro il quale fino ad allora era cresciuto.

LE VITTIME DELL’ECCIDIO
1. Abbate Domenico, anni 27, padre passionista.
2. Addelio Ernesto, anni 18, agricoltore.
3. Antropoli Salvatore, anni 33, sacerdote.
4. Aurilio Secondino, anni 16, manovale.
5. Cafaro Benedetto, anni 43, operaio.
6. Cafaro Luigi, anni 23, agricoltore.
7. Carbone Vincenzo, anni 51, operaio.
8. Carusone Francesco, anni 12.
9. Carusone Giovanni, anni 28, agricoltore.
10. Carusone Secondino, anni 26, agricoltore.
11. Carusone Vincenzo, anni 16, agricoltore.
12. Costa Remo, anni 37, operaio.
13. De Filippo Ferdinando, anni 45, agricoltore.
14. De Filippo Michele. anni 20, agricoltore.
15. Della Cioppa Cesare, anni 30, sarto.
16. Della Cioppa Pasquale, anni 55, agricoltore.
17. Di Nuccio Giuseppe, anni 19, studente.
18. Esposito Ciro, anni 25, artigiano.
19. Esposito Giovanni, anni 29, artigiano.
20. Filaccio Antimo, anni 57, agricoltore.
21. Filaccio Gennaro, anni 15, studente passionista.
22. Fusco Antonio, anni 64, agricoltore.
23. Fusco Carlo, anni 18, studente.
24. Fusco Raffaele, anni 60, artigiano.
25. Giudicianni Angelo, anni 20, studente.
26. Giudicianni Giuseppe, anni 48, agente di sanità.
27. Giudicianni Giuseppe, anni 52, esercente.
28. Giudicianni Luigi, anni 23, passionista.
29. Liguori Giovanni, anni 54, esercente.
30. Limongi Alfonso, anni 20, studente.
31. Limongi Gaetano, anni 36, impiegato.
32. Limongi Giovanni, anni 32, sacerdote.
33. Limongi Pasquale, anni 33, farmacista.
34. Lo Prete Giuseppe, anni 27, militare.
35. Manco Raffaele, anni 21, operaio.
36. Materia Giuseppe, anni 53, funzionario.
37. Nardone Valentino, anni 15, manovale.
38. Patruno Nicola, anni 28, militare.
39. Perileri Michelangelo, anni 36, agricoltore.
40. Perrella Raffaele, anni 26, operaio.
41. Petriccione Lorenzo, anni 33, guardia penitenziaria.
42. Ronzino Vincenzo, anni 31, militare.
43. Rovelli Andrea, anni 67, sacerdote.
44. Rucco Luigi, anni 42, medico. 45. Rullo Armando, anni 19, operaio.
46. Russo Carlo, anni 35, operaio.
47. Simeone Ciro, anni 56, vigile urbano.
48. Tascione Nicola Biagio, anni 43, operaio.
49. Villano Francesco, anni 29, vice-brigadiere Carabinieri.
50. Ignoto – 51. Ignoto – 52. Ignoto – 53. Ignoto – 54, Ignoto.

Altre Vittime dei nazisti a Bellona.

1. Addelio Francesco, anni 43, agricoltore, fucilato il 2 ottobre 1943.
2. Cafaro Antimo, anni 34, agricoltore, fucilato il 2 ottobre 1943.
3. Cafaro Antonio, anni 58, agricoltore, fucilato il 15 ottobre 1943.
4. Cafaro Gennaro, anni 27, agricoltore, fucilato il 2 ottobre 1943.
5. Cafaro Giuseppe. anni 30, agricoltore, fucilato il 2 ottobre 1943.
6. De Crescenzo Michele, anni 28, invalido, fucilato il 13 ottobre 1943.
7. Della Cioppa Angelo, anni 77, fucilato il 14 ottobre 1943.
8. Giudicianni Giuseppe, anni 26, operaio, fucilato il 4 ottobre 1943.
9. Milana Giovanni, anni 21, fucilato il 15 ottobre 1943.
10. Palmieri Michele, anni 53, agricoltore, fucilato il 15 ottobre 1943.
11. Pinto Alberto, anni 39, capitano GdF, fucilato il 15 ottobre 1943.
12. Scuderi Salvatore, anni 21, fucilato il 15 ottobre 1943.

Seguono numerosi ignoti.

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