“Il Quaderno Nero”, diario di un prigioniero

Dall’8 settembre 1943 all’aprile 1945, il caporal maggiore della IV Armata Italiana Giovanni Giovannini scrisse, in un quadernetto nero,un diario descrivendo sofferenze, privazioni e tentativi di fuga dai campi di concentramento nazisti. L’8 settembre 1943, si legge nel diario, Giovanni era un bel ragazzo di 23 anni, colto, amante della fotografia ed ansioso di divertirsi. In quell’anno faceva parte della IV Armata Italiana che aveva occupato la Francia nel tentativo di arginare un eventuale sbarco degli Alleati. La notizia dell’armistizio scatenò la gioia dei militari italiani desiderosi di ritornare a casa. Ma i tedeschi ed i fascisti restarono sempre alleati e non si tornava a casa se non ci si proclamava fascisti per continuare a combattere. Il caporal maggiore Giovannini ed i suoi commilitoni, ne avevano abbastanza di quella guerra e dichiararono di non essere fascisti. I “traditori” furono catturati e, ammassati in luridi vagoni di un treno, costretti a viaggiare, per 5 giorni, nella nebbia,  sotto una incessante pioggia e percossi da violente raffiche di vento gelido. Il 16 dicembre 1943 i prigionieri, dai finestrini del treno, notarono una scritta illuminata da una lampada azzurra: Koblenz (Coblenza) e capirono di essere arrivati in Germania. Furono trasferiti da un campo all’altro: venti mesi nel campo di Limburg, in Westfalia, poi in altri quattro campi per finire a Volkersthausen sul Reno, subendo le torture dei nazisti e dei “gentiluomini” delle SS. Furono sottoposti a lavori durissimi  eseguiti con le mani sanguinanti, soffrendo della fame ed immaginabili privazioni. In più l’indifferenza degli uomini della Croce Rossa che, anche essi, li consideravano “traditori”. Dopo un tentativo di fuga, Giovanni e altri furono catturati dalle guardie ed il comandante ordinò che fosse inferta loro la punizione che meritavano: cinghiate sulla nuda schiena nell’ampio cortile del campo ricoperto di neve e percosso dal vento gelido del nord. Tra tante sofferenze e privazioni, nacque l’amore tra Giovanni e Larissa, una studentessa in medicina che assisteva i prigionieri come infermiera. Ritornato a casa, e rimessosi dopo un anno di cure, Giovanni diventò inviato del quotidiano torinese “La Stampa”e fu spedito nei lager come giornalista. Qui rivide i luoghi della sua prigionia, una terribile prigionia che causò la morte di migliaia di soldati italiani. A coloro che gli chiedono di descrivere quel triste periodo della sua vita, Giovanni risponde: “E’ doveroso raccontare la tragedia dei nostri soldati abbandonati dai suoi capi, fra l’8 e l’11 settembre, in Grecia, in Albania, in Jugoslavia, nel Dodecanneso, come in ogni altro teatro di guerra. I nostri soldati si chiedevano, smarriti, dove fossero finiti i loro ufficiali: Tutti spariti, i vigliacchi! Decine e decine di nostri connazionali persero la vita nel tentativo di attraversare il grande fiume Reno in piena, per passare dalla Germania alla Svizzera, e fuggire dalle torture dei campi di concentramento nazisti. Quelli che non riuscivano a fuggire, erano uccisi con un colpo alla nuca che metteva fine al loro sogno di libertà.” 

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