Carlo Parlanti: incredibile Odissea

Da più di tre anni in un terribile carcere nel mezzo del deserto californiano. Di più sul suo caso nel sito: www.carloparlanti.it. Marco Zacchera – sono posti dove forse il Signore, al momento della creazione, non sapeva proprio cosa metterci e così ha lasciato dimenticato uno spazio vuoto, desolato. Gli uomini allora ci hanno inventato un carcere ed intorno è cresciuto un paese. Così è nato Avenal, California, ma non è quella dei film. Davvero non so se i 15.060 abitanti indicati dal cartello verde che a un certo punto nel nulla segnala l’inizio della città lungo l’interminabile rettilineo della strada statale sia corretto, e se soprattutto inserisca nel numero i circa 8.000 detenuti del carcere statale, almeno il 50% in soprannumero sui posti disponibili. Avenal vive del suo penitenziario, ma perfino gli onnipresenti uccellacci neri che ogni tanto volano in tondo se ne tengono prudentemente lontani. Gli americani hanno fatto le cose perbene, tecnicamente perfette: tre barriere di rete fitta e filo spinato (quella interna è ad alta tensione), le torri che segnano il perimetro e ricordano tanto lo stile di quelle polacche, quando il sole lontano tramontava su Auschwitz. Ma qui invece la luce è abbagliante, torrida e illumina il grande pentangono del perimetro dove dentro vivono migliaia di persone a 41° all’ombra, con in giro sorveglianti che dalla faccia sembrano aver già visto di tutto e sopportato di più. Gente spiccia, dura, con una batteria di attrezzi alla cintura che fanno tanto yankee ma anche disciplina. A te che entri in visita chiedono di toglierti e depositare tutto: orologio, chiavi, passaporto, scarpe, ogni vestito che abbia una tinta blu, macchine fotografiche (ovvio), ma anche penne e fogli di carta. Anche il console italiano a San Francisco che mi accompagna, Roberto Falaschi, viene attentamente perquisito. La tessera da deputato e il foglio con i timbri con il permesso di accesso viene guardato con malcelato disprezzo “ Ma che ci vieni mai a perder tempo qui?” ti dicono occhi silenziosi. Solo allora tu alzi lo sguardo verso le celle, grandi box di cemento praticamente senza finestre. Ad oggi i detenuti sono circa 8.000, quasi il doppio del previsto, e le celle sono ciascuna per 400 (quattrocento!) persone. Credetemi: ho visitato carceri di massima sicurezza in Italia e visto il degrado di celle in Rwanda, in Egitto, in Bielorussia, ma in qualche modo – paiono quasi umane – anche se tragiche – perché qui è soprattutto il numero e la folla dei detenuti ad angosciare. Eppure sei solo in un carcere a livello “due”, l’intermedio, non certo (ancora) nel braccio della morte. Controlli, foto, verifiche, raggi x ed entri nel perimetro, ma per farlo passi tanti altri cancelli elettrici comandati a distanza e che si aprono in sequenza, mentre ti scrutano dall’alto. Alla fine ecco il grande parlatorio: un salone stipato di coppie, dove la metà sono principi azzurri. Tutti in blu i detenuti, con le scritte gialle sul pantalone sinistro del rispettivo numero di matricola. Per questo gli ospiti a colloquio non possono indossare il blu: sbagli non sono concessi, equivoci neppure. Nell’alveare di una delle sale (sono almeno sette) tante file di tavolini bassi (li hanno abbassati – dicono – perché prima sotto si facevano nascosti “atti impuri” ). Ciascuno tavolo con due sedie, un numero – manco fossimo in un bar per le ordinazioni – e tutto comunque rigorosamente rivolto verso la cattedra sopraelevata dei sorveglianti. Sullo sfondo macchine distribuiscono caffè, bibite e tutto quel campionario di fritti e patatine in busta che fanno la gioia di chi le mangia al ritmo di vitelli all’ingrasso, ma sono la dannazione dei dietologi americani. Adesso capisci perché ti hanno permesso di portare – solo se visibili in un sacchetto di cellophane – fino a trenta dollari, ma in moneta o in tagli da uno: servono per far funzionare le macchinette- dispensa sul fondo della sala. Chi sta dentro aspetta il sabato anche solo per mangiare queste cose, visto che i colloqui per i detenuti sono il grande evento della settimana, prenotato a volte da mesi. Il “nostro” carcerato non arriva ed allora ti guardi attorno: qualche vecchietto incanutito, un paio di detenuti sulla sedia a rotelle, molti i ragazzi robusti, pochi i detenuti di colore e ancor meno le ragazze carine in visita: trionfa la mezza età. Qualche bambino corre tra i tavoli, ma è bruscamente richiamato da una sorvegliante, allora si ferma e piange. Passa più di mezz’ora e finalmente spunta il “nostro”. Ecco Carlo Parlanti, 43 anni di Montecatini, operatore informatico ed ex dipendente di una multinazionale, dentro ormai da più di tre anni per stupro. Lui proclama la sua innocenza e se scorri gli atti processuali pensi che in Italia un qualsiasi neolaureato in giurisprudenza ne avrebbe probabilmente ottenuto l’assoluzione e che un qualche “tribunale del riesame” forse lo avrebbe rispedito a casa in un lampo. Non siamo giudici, non spetta a noi decidere, ma l’obbligo è di raccontare. Luglio 2002: Parlanti lascia la sua amica e dopo un po’ di anni in America torna in Europa, da dove gira il mondo facendo il suo lavoro. Le cose gli girano benone, ma due anni dopo – di passaggio all’aeroporto di Dusseldorf venendo dall’Irlanda – un doganiere tedesco deve avergli detto “ Warten Sie, bitte!”. Bloccato, scopre che su di lui da 20 mesi pende un mandato di arresto internazionale su istanza dell’ex fidanzata che sostiene di essere stata violentata e quindi i tedeschi lo schiaffano dentro. Dentro e basta: nessuna possibilità di telefonare, chiedere del consolato italiano, avvisare la famiglia. Intorno si parla solo tedesco: i suoi diritti? E chi mai li conosce? In Italia diventano matti perché non lo trovano più, poi – scoperto – inizia un lungo braccio di ferro per estradarlo, ma la Magistratura di Milano alza le spalle: “Da noi non ha precedenti e non ha fatto alcun reato, se la vedano tedeschi ed americani”. Ricordate Alberto Sordi in “Detenuto in attesa di giudizio”? Solo che questo non è un film e serve poco la comune cittadinanza europea: undici mesi e poi l’imbarco per gli USA, ammanettato. Arriva e passa alla prima tappa, il carcere di Ventura, e poi in quello terribile di Wasco, dove si “ammorbidiscono” i prigionieri. Nes-suna ora d’aria, pila in faccia a tutte le ore della notte e alla fine una proposta semplice semplice: “Dichiarati colpevole anche di uno solo dei reati, qualche mese e sei fuori; per Natale stai già in Italia, ok?” E’ il metodo usato quasi per tutti, tanto che pare come il 96% dei processi in California finisca così. Giudice e pubblico ministero (che sono cariche elettive popolari) possono così citare con orgoglio le loro statistiche “Abbiamo preso il 96% di rei confessi, il sistema funziona!” “Per niente, io non ho violentato nessuno” prova a sostenere Parlanti. Il processo è duro, controverso, le prove sembrano vacillare, la presunta vittima cade in vistose contraddizioni ma alla fine la giuria popolare le crede. Sembra che il Pm abbia sostenuto che in Italia Carlo avesse già subito condanne per reati sessuali. Almeno questa è una infamia ed una grossolana bugia, la sua fedina penale è intatta. “Colpevole” si esprime la giuria e arriva una condanna a nove anni di carcere, buttando via la chiave. Da tre anni Carlo Parlanti è così ad Avenal e difendersi è dura. E’ emerso che alcune prove sembrano davvero false, che non ci sono riscontri diretti, che la denuncia di stupro è stata presentata 21 giorni dopo i fatti e non ci sono test medici, ma intanto Carlo sta dentro e l’appello costa fiumi di denaro, che non ci sono. È malato e glielo si legge negli occhi, prova a spiegare che cosa significhi vivere in una cella di 400 persone senza freni, cosa succede di notte quando spengono la luce, quale sia la sua dieta che al massimo si può integrare con 90 dollari al mese. Parlanti è pure sfortunato con la logistica: Avenal dipende dal nostro consolato di San Francisco e il Console per andarlo a trovarlo ogni tanto in pieno deserto impiega più di una giornata. In compenso magistrati, avvocato e consolato competente per la causa penale sono a Los Angeles, trecento chilometri più a sud. Anche per la burocrazia italiana Parlanti è una specie di apolide. Lui poi non è un detenuto “politico” e per lui non si è interessato nessuno, se non un gruppo di amici ed ex colleghi di lavoro, tantomeno si disturbano i ministri. Volano le ore, l’altoparlante annuncia l’uscita mentre le coppie ai tavolini si stringono strette. Bambini che piangono, detenuti che se ne vanno mentre le porte si spalancano lasciando entrare l’aria bollente del mezzo pomeriggio. Finalmente fuori dal recinto provo a scattare una foto all’intero complesso e dopo un attimo arriva un’auto con sirena: “Lei sta fotografando un sito vietato!” Come non detto: non si deve vedere Avenal, California, quella diversa dai film. Di più sul suo caso nel sito: www.carloparlanti.it.

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