“Concentramento” di Roberto Solofria

C’è ancora odore di nuovo al Teatro Civico 14 di Caserta, spazio gestito dalla compagnia Mutamenti e diretto da Roberto Solofria. “Concentramento” è il suo ultimo lavoro tratto dal libro “Acido solforico” di Amélie Nothomb, andato in scena dal 19 al 21 febbraio, interpretato da Ilaria Delli Paoli, Antimo Navarra, Olimpia Pisanti, Serena Ruggiero e dallo stesso Roberto Solofria. Tra fili spinati si dipana il dramma di un reality troppo reale, uno show in un campo di concentramento per concorrenti che attendono la loro eliminazione/esecuzione dal gioco, crudo e surreale, manipolato da chi anela a picchi di ascolto. Quanto più lo spettacolo è atroce tanto più l'audience arriva in alto. I prigionieri sono matricole spogliati del loro nome e costretti ai lavori forzati, agli ordini dei kapò, la parte spietata. Nel concetto estremizzato della spettacolarizzazione, la sofferenza diventa business. Bisogna tenere il pubblico da casa incollato allo schermo, coinvolgendolo nel gioco mediante fruizione per decidere chi far fuor, così i loro occhi diventano proiettili sparati contro gli internati. Assistiamo ad una realtà costruita per lo spettatore bramoso di emozioni, segno di disfacimento di una fetta di popolo soggiogato dall’infimo potere televisivo. Il dominio delle immagini e dell’industria mediatica crea una società di omologati, di spettatori passivi che si adagiano nel piacere visivo per cui urtare i loro sensi è l’unico modo per destarli, perché qui si rischia l’identità di chi scaglia il proprio sguardo oltre tutto, oltre l’indicibile, e la dignità di chi viene scagliato in questo circo(lo) del degrado. “Concentramento” è una rappresentazione che tange lo spettatore inducendolo alla riflessione e Solofria ha ben carpito il fulcro della narrazione anti-mediatica sviluppando una serie di dialoghi calibrati, con interpolazioni sonore che enfatizzano lo stato di rabbia e angoscia che permea la platea. Agli estremi, ci sono Pannonique e la kapò Zdena che animano una scenografia quasi spoglia ma essenziale, capace di comunicare. Nella messinscena equilibrata gli elementi confluiscono in uno spazio claustrofobico e sfumato, nell’atmosfera grigio-nera tagliata dal doppio filo spinato che circonda la performance degli attori, ombre che si muovono lente come i passi dell’inquietudine. Prigionieri e kapò vinceranno, insieme, contro questo sporco asservimento, così come lo spettatore attivo gode alla vittoria contro il giogo della ragione.

 

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