Un po’ di storia: Il cinegiornale Luce ai tempi della propaganda fascista
Il ruolo svolto dall’architettura nel quadro della politica culturale del periodo fascista, è testimoniato dall’interesse del pubblico dei non addetti ai lavori nei confronti di tematiche legate agli interventi dello Stato nel campo delle opere pubbliche o del riassetto urbano. Interesse che era spesso pilotato dall’azione di controllo e di propaganda dell’apparato statale. L’architettura, era infatti, presentata negli aspetti che più collegavano a quelle caratteristiche di carattere sociale o politico che il regime sceglieva di sottolineare. Ad esempio, quando la necessità dell’autarchia obbligavano a ridurre l’uso del ferro nell’edilizia e a rilanciare lo sfruttamento di materiali tradizionali più nuovi sulla stampa, questo veniva descritto come l’occasione per una sperimentazione stilistica nel segno della semplicità e del rigore formale.
In numerosi cinegiornali più che le parole erano le immagini con riprese particolarmente luminose ed efficaci a mostrare le nuove architetture, che nella loro chiarezza e linearità, apparivano come la tangibile rappresentazione di quei valori di purezza e dirittura morale tanto cari all’etica fascista. Nella sua azione di indirizzo e di controllo, in cui cultura e propaganda si confusero fino quasi ad identificarsi, ciò che il fascismo usò tanto per avvicinare il popolo alla cultura quanto per portare gli intellettuali a servire gli interessi del fascismo fu lo strumento della comunicazione, la parola e l’immagine.
Nella seconda metà degli anni venti, il ruolo del Luce era quello di illustrare visivamente le opere del regime, fornendo al pubblico la prova dei progressi raggiunti. Si trattava di documentari di tipo fotografico, in cui si presentavano moltissime realizzazioni e l’impressione trasmessa allo spettatore era quella di un paese in continua evoluzione.
Fu proprio il successo di questi filmati a determinare la decisione di offrire con regolarità informazioni sull’attualità e nel 1927, sull’esempio di iniziative già in atto in altre nazioni, nacque il Giornale Cinematografico Luce. Esso fu concepito fin dai suoi esordi come uno strumento di quel tipo di propaganda che è stata definita di integrazione, perché induce un adattamento progressivo a formule di vita e di pensiero avviata dal regime solo dopo il 1926, quando superata ogni questione di sopravvivenza politica immediata, si poneva ormai per il fascismo il problema della stabilità ed era necessario assicurarsi l’entusiasmo popolare e un riconoscimento senza riserve.
Pur ispirandosi nelle tecniche ai modelli più collaudati della stampa e della radiofonia, il Giornale Luce sfruttava infatti le potenzialità del mezzo cinematografico e la maggior efficacia derivante dalle caratteristiche della visione e dell’immagine, accresciuta in seguito anche per effetto delle musiche e dei commenti parlati.
La notizia veniva enfatizzata ma non approfondita, giocando poi sulle componenti di iterazione, di moltiplicazione dell’immagine e di spettacolarità tipiche del cinema per trasmettere la visione di una società moderna e della conquista da parte del regime di sempre nuovi traguardi. Diventava importante la diffusione di un tipo d’informazione che pretendeva solo di presentare un panorama di attualità interna ed internazionale, calibrando le notizie più in funzione della spettacolarità e della fotogenia che del significato e dell’importanza dei contenuti. Inoltre con l’avvento del sonoro nel cinema, divenne possibile usare nei cinegiornali e in generale nella cinematografia di propaganda, l’impostazione “declamatoria”, tipica fino ad allora dei giornali radio e delle radiocronache, programmi con cui il regime riusciva a far leva sull’emotività degli ascoltatori, adottando un meccanismo di ascolto partecipato e di massa inizialmente usati per le trasmissioni in diretta di importanti incontri di calcio, in cui era determinante l’abilità dei radiocronisti e soprattutto che si sentissero distintamente le acclamazioni del pubblico.