Il mito di Frankenstein nelle mani di Almodovar è un capolavoro!

Sono sicura che anche il cinefilo più incallito, abituato alla visione di incalcolabili pellicole d'autore, non riuscirebbe a restare impassibile di fronte ai nuovi  capolavori di Almodovar. Pedro Almodovar s’incarna in una nuova pelle, ritornando a stupire con un nuovo esperimento: il cinema della paura. Ed è subito un'esperienza unica. “La pelle che abito“ omaggia visibilmente il mito del dott. "Frankenstein: or, the modern Prometheus", scritto da Mary Shelley a soli 19 anni. Il film liberamente tratto dal romanzo francese “La Tarantola” di Thierry Jonquet, racconta la storia lugubre di Robert Ledgard (un marmoreo A. Banderas), un noto chirurgo estetico,anche un po' pazzo, che si trasforma in un moderno Frankenstein, quando cerca di forgiare nel proprio "retrobottega" una pelle artificiale molto resistente per curare sua moglie gravemente ustionata. Pur riuscendogli, l'esperimento, si rileva inattuabile poiché la donna, specchiandosi in un vetro vede la propria immagine deturpata e si uccide. Tale evento sconvolgerà anche l’equilibrio psichico della figlia la quale, dopo aver subito uno stupro, decide anch'essa di suicidarsi. Con la stessa follia che muove i folli ma anche i padri disperati, ai quali è stata tolta la propria figlia, Robert rapisce il giovane stupratore, lo incatena in casa sua e consuma la propria vendetta trasformandolo in una donna ("Mi chiamo Vera. Vera Cruz” battuta pungente indirizzata all'attrice "totem" di Almodovar Penelope Cruz, alla quale sarebbe dovuta andare la parte interpretata benissimo da Elena Anaya). Un piano folle ma geniale destinato a fallire perché come ci insegna il regista degli"abbracci spezzati", esistono donne, anche se sempre sull'orlo di una crisi di nervi, forti e pronte a lottare tenacemente per conservare la propria identità e la propria essenza al di là della forma. L'impronta almodovariana è subito evidente: il film si apre su un incantevole viso di una ragazza in una attillatissima tuta color carne, che fa yoga come fosse una ballerina di Pina Bausch e crea sculture come quelle di Louise Bourgeois. La Piel que habito regala spunti di grandi film degli anni 40-50 ("Occhi senza volto") e altri come Vertigo e The Truman show. Una scrittura perfetta, una fotografia manierista e poi storie struggenti di madri con segreti inconfessabili, trasformazioni di sessi, l'amore in ogni sua forma, la tenacia dei protagonisti incarcerati in ruoli fissi. Almodovar cambia pelle ma non stile! In un’epoca che sembra voler omologare con la chirurgia plastica, alienare l'essere umano e servirsi dell'anima nera del progresso tecnologico, Almodòvar da come unico antidoto la difesa della propria identità. Per farci arrivare il messaggio affonda il bisturi direttamente nella carne dei propri personaggi, trasmettendoci "a pelle" il processo di resistenza interiore dei suoi personaggi.  Dopo la visione del film, si esce dalla sala alquanto sconvolti e turbati e indotti a riflettere e a discutere sulla trama ben tessuta e sulla modernità dei temi trattati. E' solo per questo (ma anche per mille altri motivi) che Almodòvar resterà uno dei più grandi. Sicuramente forse il più grande a cambiare continuamente pelle.

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