Body and Soul, il genio di Petrucciani

Alcuni giorni fa, Rai5 ha offerto la possibilità di rivedere il documentario biografico su quella stella già leggendaria che è divenuto Michel Petrucciani; “Body and Soul” di Michael Redford è la navigazione attraverso le pagine irrefrenabili della vita del compianto Petrucciani, pianista dalle doti assolutamente fuori dall’ordinario. Un ragazzo colpito da osteogenesi imperfetta, che impara a suonare pianoforte e batteria ricorrendo a degli accorgimenti ideati dal padre, per potere arrivare alla pedaliera; quello stesso ragazzo che fa una prima tournée europea ed abitua il pubblico a vedere dietro alla tastiera una figura insolita, terribilmente ridotta in proporzioni fisiche, sconfinatamente geniale con uno Steinway sotto le dita. Nei montaggi di “Body and Soul” lo seguiamo approdare in California, dove il sassofonista Charles Lloyd lo assembla al suo gruppo e gli consente di impressionare la scena pianistica jazz americana; quello di Redford è anche il Petrucciani con “un impulso onnivoro a scoprire tutto della vita, a voler capire ed assimilare tutto quanto potesse, che in una manciata di settimane abbandona la madrelingua francese ed impara così bene l’inglese da riuscire ad usare alla perfezione lo slang americano”. I suoi doni di natura fanno di una tastiera una creatura rinnovata, le donano nuove capacità espressive, vuoi per il genio innato, vuoi per la costituzione articolare della dita: lo Steinway “suona diverso” quando ricompare lui, che ricevette il Premio Django Reinhardt, per ottenere il quale molti colleghi avrebbero strisciato in ginocchio per chilometri, e che si esibì al Congresso Eucaristico del 1997 a Bologna, in presenza di Papa Wojtyla, e non sapeva, o forse chissà, ne aveva sentore, che la sua vicenda si sarebbe conclusa entro meno di due anni. Le donne di Petrucciani, lasciate una dopo l’altra per cercare ed innamorarsi altrove, che lo descrivono passionale ed assolutamente capace, su quel fronte, irretite dalla sua personalità che polverizzava l’uomo visibile e conquistava per tutto il resto; d’altronde, “Michel era così, se ne andava senza avvisarti”, racconta la prima moglie, o compagna, visto che non si sposarono. Compagno anche della pianista italiana Gilda Buttà, dalla quale divorziò, ebbe due figli e milioni di ammiratori; e li ha ancora, ovunque, in piena venerazione della sua musica, delle capacità che ebbe di rivisitare gli standard e farne altra materia. Furono trentasei anni folgoranti, in cui provò e visse di tutto, mentre i tasti comprendevano che sarebbe bastato esser docili al suo tocco inconfondibile, netto e nitido, contenutamente nervoso, quasi emanasse positività e complessità, sorriso alla vita e ai suoi problemi. Era lui a disintegrare chi si dimostrasse stordito dai suoi problemi di crescita: “Hey, io ho dei problemi, anche tu hai dei problemi, credo che tutti abbiano dei problemi, e non vedo il problema dove sia”; lui era Petrucciani, e i problemi li aveva fatti arrendere alla sua genialità monumentale. Riposa al Père Lachaise di Parigi, accanto a Chopin; starà lì a ciondolare le proprie minute gambe, tra la tastiera e i pedali, a creare nuove sostituzioni armoniche per l’intro di “Looking up”, mentre il suo lascito artistico lo eterna, per fortuna, tra i veri grandi della musica.

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