Il ballo di Irène Némirovsky
Sembra quasi la tentazione di un romanzo di formazione al rovescio, “Il ballo” di Irène Némirovsky. Sei capitoli lapidari per la scrittrice ucraina, morta ad Auschwitz nel ’42, a costruire una narrazione dal disarmante incastro. Si svolge tutto a Parigi, tra la casa dei Kampf, ebrei d’improvviso arricchitisi con una vincita, e le strade del passeggio, rito vitale per le facce borghesi. C’è Antoinette, quattordicenne di casa Kampf, sbattuta dalla madre attraverso tutti gli impegni che toccano ad una figlia d’ambiente borghese (forse pseudo-borghese): tra il patetico e il mal sofferto la giovane va a lezioni di piano dall’odiata signorina Isabelle, pungolosa e sfiorita musicista, segue lezioni private di tedesco, poi un giorno si risolve a strozzare l’esistenza della madre, proprio sulla scena delle vanità. “Il ballo” infatti delinea al meglio, nella produzione della Némirovsky, la sua concezione sulla figura delle madri, detestate per la loro fatuità e civetteria, o per il narcisismo, come rimarcato da Maria Nadotti; madri che esasperano i figli nella morsa dei capricci d’età adulta, o mogli d’appoggio, sposate e senza proiezione coniugale, mogli da esibire in teatro e da paludare in seta e chignon. Formazione al contrario, Antoinette che fa saltare il piano più alto e frivolo per la madre Rosine, al cospetto della raffinata, tarlata società alto-borghese parigina (in un modo che qui non verrà rivelato); un’adolescente con chiare idee di rivalsa, di sfregio anti-materno, contro una madre ondivaga, per la quale la massima ansia sta nella collocazione in salone di una caraffa di Baccarat, senza tralasciare di togliersi di torno Antoinette. Il confronto tra tale madre ed una tale figlia atterrisce per i tempi dettati dall’autrice nel romanzo, per il modo in cui Antoinette frantuma la ribalta così preziosa per una coppia di parvenu come i genitori, calpestando la loro ascesa sociale, per il fantoccio cui viene ridotto il padre, ed ancora per l’aria stantia insufflata in quei saloni da ricevimento, in quei rapporti di cortesia con marchesi dal titolo comprato, fin nella polvere non descritta, ma percepibile, del pianoforte di Isabelle. Emerge solo una possibilità per salvare quel rapporto filiale, “venire a patti, fare pace con la propria madre, negoziare con se stesse, attraversando la penombra o la terra desolata della preistoria femminile” (Luce Irigaray).