“Fine” di Monteagudo: l’esordio visionario dello scrittore operaio

Un operaio della Galizia, fronte ampia e capelli tenuti quasi a zero, ci dimostra che può avvenire di essere un operaio e al contempo l’autore di uno dei casi letterari dell’editoria spagnola. David Monteagudo, vocazione letteraria alla soglia dei quarant’anni, vive a Barcellona ed ha consegnato alle stampe “Fine”, uno dei romanzi più eccentrici e funzionati del 2009 (edito in Italia da Guanda a partire dal 2012). Lo scrittore, originario della Galizia, manda un nutrito gruppo di amici nel luogo di ritrovo della loro giovinezza, dove tutti avevano promesso di incontrarsi dopo venticinque anni. La comitiva, nel giorno convenuto, si rivede nel rifugio montano delle prime sbronze, ma anche dei primi sogni e progetti in erba, discussi di notte stando sdraiati sul prato, con il viso proiettato nel cielo stellato; ma la reunion parte male, molto male, il tempo di assaggiare qualche morso di affettato e Monteagudo scioglie ogni riserva all’imprevedibile più radicale: l’intera zona resta priva di elettricità, e fin qui gli amici provano solo della perplessità, dopodiché a sparire nel nulla saranno loro stessi, uno ad uno, e da qui comincia a diffondersi un panico snervante. Costruito dialogicamente tramite confronti sui temi dell’ordinaria contemporaneità (la bieca politica, l’immigrazione, l’occupazione della seconda età, la sessualità e l’omofobia), “Fine” centrifuga le mentalità contrastanti dei personaggi nella prima parte e nella parte seguente, questo è il punto forte della stesura, trasfigura il paesaggio naturale spagnolo in una terra desolata e deserta; la profusione verbale dell’insediamento serale al rifugio si dissecca, si disperde poco più in là, man mano che le sparizioni avvengono a bruciapelo e svuotano il paesaggio. La scrittura contribuisce, appunto, a creare una serie di luoghi del vuoto, dove non esiste più l’affanno delle liti verbali, ma fremiti attendisti e interiori, per tutti, perché tutti in breve perdono la bussola e la comprensione di quanto accada attorno. Un’opera bunueliana, come ha scritto certa critica, molto più che un’etichetta categorizzante, forse una pennellata efficace sullo stile di questo mirabolante operaio galiziano, che si presenta da esordiente e tinge la vita degli umani contemporanei di uno smarrimento personal-collettivo in crescendo, urgente da affrontare e paradossale nella trama specifica. In una delle ultime pagine, molto registica, uno dei personaggi si avvia verso la città, percorrendo un viale che lo lascia “affondare” con lentezza negli strati urbani: sembra venga rievocata la tregua finale di certi sismi psicodrammatici, in un quadro post-apocaliptico, dove la cinepresa desiste dall’inseguire l’eroe e lo lascia naufragare verso le onde dell’ignoto, anch’esse bunueliane. Lì, Monteagudo stacca la propria narrazione e sfida chi legge a fantasticare da sé sui possibili finali, sempre che le vie surreali da lui firmate prevedano dei finali, se non intuibili nel libro, almeno mentalmente figurabili.  

 

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