Philomena, facce variegate di una storia meravigliosa
La sceneggiatura di Philomena, per la regia di Stephen Frears, possiede il dono di una tenuta disarmante, di un’anima imprevedibile, che gioca a far la spola tra il filo drammatico dei fatti e una secante fatta di dialoghi ricchi di humour inglese. La prima critica – il film in Italia è uscito lo scorso dicembre – ha evidenziato con buona comprensione che il lavoro è “lacerato da approcci contrastanti”. Il primo riflesso della constatazione sembra essere proprio nella costruzione della sceneggiatura, perché si resta davvero interdetti nel dover scegliere quale linea di lettura adottare al riguardo: Philomena Lee, irlandese, vive da cinquant’anni il dolore per un figlio strappatole in convento e mai più ritrovato, dopo essere stato adottato da una famiglia americana; Martin Sixsmith, giornalista con ambiti di scrittura del tutto diversi dalle “storie di vita vissuta” – citazione testuale dal film –, travolto da uno scandalo di natura professionale, decide di sostenerla nella complicata ricerca. È una pellicola drammatica, premiata già a Venezia con il Premio Osella per la migliore sceneggiatura, con tre candidature ai prossimi Golden Globe, ma nel dramma trovano posto germi di ironia che tagliano davvero corto con lo spettatore: o ne si resta innamorati, oppure infastiditi da fasi dialogiche in cui il passato sofferto di Philomena cozza duro contro la figura di una donna che, atterrata nella città dove il figlio stesso dovrebbe vivere, Washington, impiega tutta la colazione a chiedere se Martin preferisca omelette, mirtilli o pancake. Esempio estratto a caso dai 94 minuti e non isolato. Sono battute pacate, frasi impacciate di un giornalista timido e ostinato, ateo, in lotta contro tutto, o sortite scanzonate di una madre con una vita ripiegata nel silenzio e tenuta nascosta a tutti, ma stupefacente per quelle volute di leggerezza che la sceneggiatura le dona. Si tiene a precisare che, se amalgamate come è stato fatto in Philomena, queste lavorazioni di intarsio sulla narrazione drammatica sono benedette, e che la ricezione e la valutazione dei suddetti “approcci contrastanti” si riduce alla sensibilità soggettiva. D’altro canto, l’oggettività deve pur badare alla sottolineatura di certi fattori che poi saranno assorbiti dalla soggettività. Nulla esclude che questa veste spensierata di Philomena, una Judi Dench fuori dall’ordinario, sia solo la protezione salda a sotterranei della psiche in cui il tormento non si è sopito. Restano poi i temi portanti del film, da discutere a proiettore acceso: l’oscurantismo dei rispettabili conventi degli anni ’50, in cui le ragazze madri venivano private dei figli, affidati a famiglie di un altro continente in cambio di mille dollari, come fosse una punizione su commissione divina del loro essere svergognate, incapaci di aver domato i richiami della carnalità; proprio come Suor Hildegarde, che a distanza di anni si ritrova alle porte del convento Michael, il figlio di Philomena, ma abbracciandolo gli risponde che non hanno notizie di sua madre da decenni. Da contraltare, un Martin Sixsmith rovente, il quale sbraita sul volto della suora che sarebbe molto più cristiano uscire fuori e togliere escrementi ed erbacce dalle lapidi di madri e figli morti lì durante il parto. Ancora più truce, nella misura in cui è più latente, le leggi spietate di un giornalismo psicotico che sbava dietro a qualsiasi notizia capace di buona tiratura, non importa quanto privata, delicata, dolorosa sia quella notizia, quella storia. La redazione di Martin appare un tritatutto irriverente ad ogni riguardo deontologico, ma il giornalista prenderà una diversa decisione. E una sceneggiatura come quella firmata da Steve Coogan e da Jeff Pope, meravigliosa, vera, vissuta – perché quella di Philomena e di Martin è una storia verissima – attraverso scene che sono veri bagni di fotografia in luce ocra, dipinge la più grande rivincita di madre e figlio dispersi per il mondo, a danno di ogni sopraffazione gratuita. Una rivincita da ammirare, in silenzio.