L’apparenza di O. Russell inganna e corre agli Oscar con dieci nomination
Cosicché, se ciò che è apparente – in quanto tale – inganna, e se tutto è apparente, non solo nel primo step di apertura alla realtà, ma spesso anche dopo, cioè quando ci si sente in maggiore garanzia di donar fiducia, cosa resterebbe eventualmente di attendibile? Forse il meraviglioso particolare registico del piede sinistro di Amy Adams e del sandalo color oro, mentre lei si accomoda sul sedile della propria auto? Se l’apparenza devia dal giusto – quanti addebiti alla filosofia di ogni tempo – converrebbe vivere giorni in fila a fior di nervi, per guerreggiare su chi riesca a prevalere nella commedia della dissimulazione? Ma American Hustle e la regia di David O. Russell sono soltanto questo? No, per fortuna, altrimenti si discuterebbe dell’ennesimo film suscitante umorismo adrenalinico, l’ “n+1” di un’attitudine che già dieci anni fa (esempio tra i tantissimi) spolpava l’anima al tema dell’apparenza con “La regola del sospetto”. E così, mentre O. Russell e il cast tengono sotto mano dieci nomination per gli Oscar 2014, il dovere è di analizzare quant’altro ci sia, oltre alla linotipia delle realtà di facciata, le sfoglie transitorie di gesti e di spettri che, pur rimossi con lo svelamento dell’inganno, liberano solo il posto ad un inganno più profondo. Che meraviglia Christian Bale nei panni di Irving Rosenfeld, con i suoi abiti di velluto sgargianti, Ray Ban a goccia sfumata e capelli disciplinati a forza di lozioni collose; e la sua socia in frodi Sydney Prosser, una Amy Lou Adams che può spiegarsi solo sullo schermo, che fa sbandare come chi volesse capir qualcosa dei piani narrativi del film entro la mezz’ora. Jeffrey Cooper e Jennifer Lawrence completano i quattro di punta scelti da O. Russell, che non si fa sfuggire Robert De Niro, nel cast anche del suo recente “Silver Linings Playbook” (Il lato positivo). O. Russell bipolare, nella realtà, nella sua realtà mentale, più o meno vera, che sfoga la fallacia di tutto attraverso due ore e venti di commedia drammatica, di dramma anestetizzato con Duke Ellington, blues, bluegrass e Rock & Roll. De Niro fa da spalla mafiosa negli affari di ricostruzione di Camden, New Jersey, al sindaco Carmine Polito, ma i soldi deve versarli uno sceicco, e per farlo c’è bisogno di una cittadinanza americana che, per abbreviare i tempi, necessita di corrompere senatori, e membri del Congresso, ed avvocati. Ma lo sceicco in realtà si occupa di infissi in alluminio e il mafioso americano parla l’arabo meglio di lui, che è messicano. Abbastanza? Ma per nulla. Nessuno è il buono, l’affidabile, nessuno è talmente stupido da fare la seria parte del traditore, o dell’insospettabile, o del redentore della scena. Nessuno è se stesso sempre. Tutti possono essere decostruiti, smontati, tutti devono sbeffeggiare e subire lo stesso. E, ovvio, qui tutti partecipano a meeting di potere, si ubriacano di champagne e di pompa magna, tutti vanno a letto con la moglie e il marito di altri (è solo la realtà ), con la complicazione che al ritorno nelle modeste camere fanno troppa fatica a struccarsi la mente dai propri artifici ed auto-inganni. Ancora, l’apoteosi delle transizioni musicali Rock & Roll post ’60, l’ascesa in comizio di Polito che, dopo avere incontrato mafiosi e finti depositari, sale sul palco, cita la famiglia, i figli, i sacrifici del self-made man commosso, e così infiamma gli elettori, mentre dietro al palco al truffatore Rosenfeld sta per scoppiare il cuore e deve ingozzarsi di pillole per il cuore. Ma anche per lui non è abbastanza. L’uomo è sudicio per natura, o semplicemente per trasmissione genetica, ed ancora più sudicio se accostato al suo gemello, il denaro. D’accordo, la trama sarà scontata per alcuni versi, ma la sceneggiatura si batterà comunque agli Oscar, e con lei i costumi, la scenografia, oltre al cast. Il montaggio di Jay Cassidy, la corruzione finale della concatenazione temporale, il fendente allo spettatore, che avrà bisogno di molti minuti, prima di assestare i ruoli. O. Russell crea una commedia nel dramma, crisi di nervi misere e protagonistiche, porta a galla di converso la commozione ironica, in una svogliata scelta del decennio da trattare per parlare di corruzione, non solo quella monetaria. Sceglie gli anni ’70 ed una storia vera, l’operazione FBI “Abscam”. L’agente DiMaso (Cooper), dopo aver rischiato tutto, verrà finanche sospettato; Rosenfeld gli farà presente, più di tutto, che ha messo in galera una manciata di senatori vendutisi per settantamila dollari, spiccioli, ma i veri politici, i fuorilegge del Congresso che controllano il denaro che conta, di quelli non vedrà in carcere neanche l’ombra, mai. Più che altro, belli gli anni ’70 di questo “Hustle”: allora i politici si corrompevano in analogico, con valigette foderate in appartamenti con il parquet e tappeti (finti, s’intende), con microcamere e cimici; non come i ’90 e i 2000, quando basta una transazione cibernetica e asettica per chiudere il gioco. Ne si può dire di tutto, a valanga, per pagine e pagine, per ore, di questo “trambusto americano”; è che tutto si corrompe e si può piegare, e se sei sordido, prima o poi il lerciume gocciolerà. Con o senza Oscar. Basta appartenere agli umani.