“Vincitori e vinti” di Ranieri Ciu: coscienza e memoria per la Shoah

Nella giornata della memoria 2014 un ragazzino si è piazzato davanti allo specchio, con finti baffetti alla Hitler ed un’aria seriosa, mostrando un foglio di carta con la scritta “Buona giornata della memoria”; poco più sotto, due svastiche, tanto per incorniciare l’illuminazione del momento. Poi ha postato la foto su Facebook ed in poco tempo è stato identificato su tutte le pagine che hanno condiviso l’immagine, finendo per fare la parte a lui destinata. In ricorrenza della medesima Giornata, un altro gruppo di giovani è salito sul palco del Teatro Don Bosco di Caserta ed ha condotto in scena “Vincitori e vinti”, lavoro di Patrizio Ranieri Ciu, incentrato sul negazionismo della Shoah e scritto a quattro mani con Alfonso Martucci, l’insigne e compianto penalista sammaritano. Una soluzione scenica che riporta la mente ai fatti e al processo di Norimberga: un’aula di tribunale con fondale nero e le due parti in contesa a fronteggiarsi, accusa a sinistra e difesa a destra; ma le fasi di questo processo hanno una missione più universalizzante di Norimberga, vi si assiste senza soffocare tra le capziosità di faldoni e ricostruzioni snervanti. Il giudice (Gian Rolando Scaringi) modera gli avvocati delle parti, consapevoli della scabrosità della materia e vorticanti nel duello forense: l’accusa rinfaccia ed intavola gli atti giudiziari degli orrori nazisti, la difesa sembra più muoversi all’insegna di una condotta giustificazionista. L’accecata escalation del Reich a svastiche viene interpretata non solo dal punto macrostorico dello scettro hitleriano, ma da quello dell’ubbidienza di un’intera Nazione, che si riconosceva in dettami, follie evoluzionistiche e progressiste, simbolismi collettivi, imposizioni da cui nessun cittadino che tenesse a sopravvivere (almeno in Germania) poteva esimersi. E allora la difesa procede ad illustrare il sentimento di appartenenza ad una società consolidata ed aggregata attorno al totem del Nazismo, quell’ideale di partecipazione non solo ad uno Stato egemonico, ma anche alla realizzazione dello spirito nazionalistico tedesco, quasi un’hegeliana figurazione della superiore dimensione dello Stato. Teorie che mandano in scintille le rimostranze dell’accusa. Il processo potrebbe assestarsi in un continuo rocambolare di obiezioni ed esposizioni, ma qui la scrittura di Ranieri e di Martucci cambia canale, manda tutti i presenti al buio e conduce in primo piano le testimonianze dirette, le più difficili da assimilare, quelle per assurdo, dopo il dolore performativo, stimolano le vere riflessioni: l’ebreo avaro (Ivan Santinelli) è il principale indiziato del regime, da annientare, e ora riversa le indignazioni su tormenti non ancora consumatisi; la ragazza in veste a righe descrive l’obbligo di dover suonare per i nazisti in divisa, rivive il ricordo della musica da lager, e poi il preludio all’altra musica, quella convertita in gas mortale, che detta il tempo di marcia verso il genocidio. Spiccano il caso di Sergio De Simone (Gianmarco Pinto), bimbo napoletano internato con la madre e protagonista di vicende impossibili da non ricondurre a “La vita è bella”, e il racconto di Jacqueline (Giusy Russo); entrambi rammaricati che la loro conoscenza sia durata pochi giorni: la scienza medica nazista privò loro ed altri delle ghiandole linfatiche sottoascellari, al Blocco 10, per studiare le reazioni immunitarie in presenza di un virus inoculato, ma gli esperimenti non furono all’altezza delle aspettative. C’è spazio ancora per gli agghiaccianti resoconti delle donne costrette a compiacere i gerarchi, l’esaltazione del lusso e la frenetica discesa infernale dell’animo, che conduce una di loro a spararsi tra le gambe, per auto-ripudio. Giungono a consolare le vittime le uniche presenze in veste tutta bianca, le due attrici più piccole: dispensano carezze per il loro travaglio carnale ed interiore, e poi arretrano verso il fondo scena. A chiudere le testimonianze, una voce della controparte, il boia, uno dei tanti allora deputati al ruolo (Mariano Viggiano), imperterrito nel descrivere l’uccisione di venti bambini, per impiccagione. Quel “Li impiccai” nel cuore del discorso, “mi aggrappai con tutte le forze al loro corpo appeso al cappio, mi ci vollero quasi tre ore” risuonano di terrore inesauribile. I testimoni sono posti sotto il fascio di luce isolante: non è solo il luogo di un interrogatorio, è anche il ritrovarsi dinanzi alle proprie responsabilità per il boia, è il rivissuto dei milioni di vittime, è l’ora del silenzio e dell’agitazione per chi assiste. Una doppia platea: una frontale, gli spettatori in sala, l’altra di spalle al giudice, il gruppo di adolescenti del cast che assiste alle arringhe in aula; la troppa cronaca li confonde e sconvolge, sono figli di una società assorbita da tutt’altro, che forse sta rischiando di formalizzare anche il 27 gennaio. L’incursione del gappista sul finire delle due ore schiaffeggia a ragione il ben pensiero di certuni: lui (Edoardo Integlia) spara su chiunque indossi una divisa, è pazzo di rabbia e di rivalsa nell’urlare che la divisa non comunica il sangue delle vittime, “la divisa è stirata, ordinata”, non trasmette lo strazio della morte e degli orrori di cui si è resa complice. I minuti di sfogo del gappista restano tra i momenti migliori del lavoro, per efficienza comunicativa e tempo d’azione. C’è un messaggio sotteso al tutto, alla lunga durata in atto unico di “Vincitori e vinti”: sia il negazionismo che il giustificazionismo sono crimini contemporanei. È importante aver memoria, certamente, bisogna condividere, ma bisogna ancor più avere il coraggio di ritornare in se stessi ed affrontare il tema da soli. È la Coscienza a poter salvare l’azione e la memoria umana, è la serie di momenti brevi ma senza fine a poter assicurare un briciolo di redenzione. Il vero atto costruttivo non è solo ripercorrere assieme, ma porsi domande nell’intimo, che tormentino, scavino e concludano qualcosa di onesto. La difesa garbatamente invitava a riflettere su quale sia stato il ruolo vero degli Stati Uniti, o del Vaticano, nel disegno di egemonia mondiale di Hitler. Intanto, nei bei momenti musicali dello spettacolo, si udiva cantare: “Tu che vai, non dimenticartene mai”.

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