Quattro opere di Piero della Francesca al Metropolitan

Saranno in mostra fino al 30 marzo, presso le sale del Metropolitan di New York, quattro lavori dello straordinario talento italiano che fu Piero della Francesca. L’esposizione, intitolata “Piero della Francesca: Personal Encounters”, propone attraverso la serie di dipinti un flash specifico sull’articolazione devozionale della pittura di Piero. Dalla Galleria Nazionale di Urbino è volata negli Usa la “Madonna di Senigallia”, datazione incerta oscillante tra il 1470 e il 1485: sull’olio trasferito su tela la resa degli angeli è solida ma al contempo delicata, soggetta all’assenza di punti d’appoggio spaziali e tradotta nelle tenui tinte del grigio e del salmone dei panneggi angelici. I simbolismi giacciono nella rosa bianca del Bambino, che allude alla purezza della Vergine, e nella collana di corallo, rimando alla premonizione della Passione. L’amore per gli effetti di luce, l’impiego dei colori più scuri per i primi piani, la delicatezza data dai toni chiari e la resa dei particolari figurativi risaltano anche nel “San Gerolamo penitente” di Berlino (1450), con la figura del santo eremita e studioso, inserito in un paesaggio all’aperto (la tavola è nota anche come “San Gerolamo in un panorama”).  San Gerolamo ricorre anche nella terza tavola in trasferta americana, “San Gerolamo e il donatore Girolamo Amadi”, dalla Galleria dell’Accademia di Venezia: al medesimo contesto situazionale e spaziale della precedente opera si aggiunge la presenza del donatore, inginocchiato dinanzi al santo. Meravigliosa è la diversa cornice naturale sulle teste dei due uomini: sul donatore le ombre di un albero frondoso, sul capo dell’eremita il cielo limpido e appena dorato, con dei crinali sullo sfondo, simbolismo della conversazione divina. Più impostata su canoni iconografici rimandanti al secolo precedente è la “Madonna con il Bambino” (1440 ca.) della collezione privata Alana, in Delaware. Nel complesso, la rivisitazione di tali opere devozionali di Piero della Francesca evidenzia la grandezza di uno dei più grandi maestri della stagione pittorica italiana del Quattrocento, che seppe ben governare l’eredità trecentesca ed innestarvi la filosofia della grande lezione fiamminga (Rogier van der Weyden, tra i principali), aprendo il varco ad una nuova fase di riflessione sulle potenzialità riguardanti l’impiego del colore e delle sue tonalità, del particolare che sposa la forma sicura e stabile, della luce che informa come attrice mai defilata la scena proposta al fruitore.

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