High Hopes di Springsteen con Tom Morello

È avvenuto all’album numero diciotto del cantore delle strade di Philadelphia: la sua voce, emblema di quell’Heartland rock che spara denuncia sociale e rivendica dignità per tutti ancora e soprattutto oggi, la sua voce che ospita in “High Hopes” una delle chitarre elettriche più mediaticamente celebrate degli ultimi vent’anni, andata a nozze con il rap metal, l’alternative e l’hard, ovvero Tom Morello. Il chitarrista, già nei Rage Against the Machine e negli Audioslave di Chris Cornell, si è trovato a sostituire l’omologo della E Street Band del Boss, Steve van Zandt, durante il recente tour australiano: da lì il progetto uscito quest’anno per la Columbia, “High hopes”, grandi speranze di far funzionare ancora l’alchimia sonora di Springsteen rivisitando una dozzina di brani provenienti da dischi precedenti, stavolta imbastiti però secondo altre declinazioni di arrangiamento. La title track ha un passaporto del 1996, scritta da Tim Scott ed inserita nell’EP “Blood brothers”: la prima versione ragionava nelle frasi strumentali per mezzo di organi e tastiere, la “High hopes” 2.0 di morelliana impronta vi sostituisce invece parti di fiati, da veri protagonisti, che se sembrano sfilacciare (dopo un confronto certosino) quell’amalgama denso del 1996, ribadiscono una sincera forma di calore, di intenzioni intelligentemente attraenti riversate nel nuovo album. Poi c’è il caso di “The ghost of Tom Joad”: brano scritto per l’omonimo disco del 1995, con protagonista il medesimo Tom Joad del romanzo di Steinbeck “Furore” (“The Grapes of Wrath”, tit. or.), testo pulsante di emarginazione e con un significato impossibile da recintare in un singolo decennio storico; chi l’ha scritto siede alla luce del fornello da campo e resta in paziente ricerca del fantasma di Tom, attesa scandita da frasi rivolte agli immigrati, all’adolescenza difficile e alle notti trascorse a dormire sotto i ponti (e non per velleità). Il tono della versione primaria è sommesso, intessuto con armonica ed arpeggi di chitarra, la voce di Springsteen è quella di chi si trova nel campo desolato lungo le reti di confine dell’aeroporto, delicata, onirica, e l’indignazione è al confine con una poesia del silenzio e della spossatezza (non del languore retorico-musicale). The Boss andò nel 1996 a cantarla a Sanremo, nel 2000 gli stessi Rage Against the Machine ne fecero una cover “rivoluzionaria” a colpi di rap metal (la voce di Zack de la Rocha è il rap metal, quando questo urla denunce sociali); la nuova veste, eseguita nel 2009 alla Rock and Roll Hall of Fame, ha nella line-up di palco l’altro Tom, il Morello con la sua chitarra stinta e con le scritte di pennarello, che trasforma il pezzo in una pepita da arena-heartland-rock. Gli assoli sono ben declamati, affascinanti quanto distanti dal Tom Joad del 1995; Morello trova il tempo di duettare e di aprire una breccia verso il sogno Hendrix, in maniera ancora più marcata in alcuni altri brani di “High Hopes”. Insomma, l’incontro della E Street con Tom Morello sradica dall’archivio queste dodici tracce del passato e le rivernicia – per amor del cielo, senza superficialità – ma si spera che ogni ammiratore del nuovo disco riesca a non smarrire con quale identità questi pezzi siano nati. Va da sé che il nuovo millennio ha fame di novità avvolgenti, attraverso suoni che catturino e che facciano molto “main stage”, ma, appunto, The Boss ha una carriera storica, e bisogna pur ricordarlo. Come sa benissimo anche lui, che ora ha per fortuna fatto amare Morello a chi prima non lo conosceva.

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