A Firenze la mostra a due di Michelangelo e Pollock

Jackson Pollock non fu mai un grande disegnatore, fu palese dagli anni di formazione all’ “Arts Student League” di New York, anzi i compagni lo canzonavano; Michelangelo fu leggermente più dotato in materia, divenendo il genio cinquecentesco della figura umana, intesa in senso fisico, statuario, muscolare. Come ideare una mostra per porre fianco a fianco due nomi tanto fondamentali per la storia dell’arte eppure così distanti, non solo per i quasi cinquecento anni  di scarto temporale? Si fa ricorrendo ad un “concept”, come verrebbe chiamato ai giorni nostri il tema concettuale conduttore, quel concept che battezza la mostra aperta presso il Salone dei Cinquecento a Firenze, “Jackson Pollock. La figura della furia”, per celebrare il 450mo anniversario dalla scomparsa di Michelangelo. Nessun parallelo percorribile dal punto di vista visivo, nessun sincretismo di soggetti su tela, i tentativi rivolti alle soluzioni figurative sarebbero tutti vani, figurarsi il voler accomunarle secondo astruse vie dell’estetica pittorica; qui si radica l’essenza del concept in questione: la furia, l’impeto creativo, prescindendo dalla forma, dalla morfologia del gradino ultimo, d’arrivo, dell’artista e del suo prodotto. Lì Pollock e Michelangelo non conoscono più distanziamento, le identità iniziano a calamitarsi. Perché il toscano e l’americano furono figure furiose in prima persona, ancor prima delle riflessioni su come e a cosa dar vita: nel 1506 le guardie pontificie di Giulio II dovettero inseguire il primo per un bel po’, dal Vaticano fino a Poggibonsi, per convincerlo a rientrare a Roma; ma Michelangelo aveva più di una ragione, essendo partito mesi prima alla volta di Carrara per reperire i marmi utili alla tomba di Giulio II, ed avendo al suo ritorno trovato un Papa totalmente distratto da Bramante e dal restauro della basilica vaticana, intenzionato dunque a sospendere il progetto della travagliata “sepoltura”. Michelangelo fu bipolare, con tendenze amorose ed erotiche all’epoca deprecate, personaggio ed artista spigoloso, ma capace di stare adagiato di schiena sui ponteggi per mesi, facendosi gocciolare negli occhi i colori e rischiando anche di cadere dal soffitto, per poi svelare al mondo la magnificenza sublime della Sistina. Le sue realizzazioni scultoree incarnano l’ideale più nobile e vigoroso della fisicità umana, della carnalità non come albergo del peccato, ma stendardo rinascimentale della dignità, della forza fisica e della tensione mentale (Mosè, David, o ancora i magnifici Tondi). E se le stesse referenze non ritornano nell’opera di Pollock, innegabile è stata la sua determinazione a fondare tutta la propria filosofia sulla furia, sul gesto mirato e squarciante: Michelangelo e le proprie figure furono entrambi simboli di tale impeto, con Pollock la furia è tutta insita nell’artista. Le enormi tele lavorate con il “dripping” (il gocciolamento di colori e vernici tramite spatole e pennelli) sono l’ultimo stadio di un processo mentale, di furia psicologica, di vita indomita, che per Pollock ebbe l’ultimo acuto nello schianto fatale su strada. La furia era già solo concepire un metodo rivoluzionario di dipingere, senza la valenza del disegno, ma interpretando l’opera come parto estetico della gestualità contestatrice, ribelle ai valori, ai preconcetti e alle pastoie di una società intrisa di forme di ipocrisie. Il colore scagliato, slabbrato, irregolare, schizzato sulle tele, era la materializzazione dell’indignazione, di questa “furia” irrinunciabile per l’artista e per l’uomo onesto. Lì Pollock e Michelangelo si affratellano. Buonarroti fece scandalo per aver venduto come reperto archeologico un Cupido dormiente scolpito da lui in realtà appena pochi mesi prima, Pollock destò scalpore per aver inaugurato con quelle tele abnormi e con opere “bislacche” la grande stagione dell’Espressionismo Astratto, assieme a Rothko e a de Kooning. Le due forme di follia geniale ed immortale si ritrovano così a Firenze, affinché per Bellezza non si intenda mai soltanto l’armonia della classicità (quella è il Bello Ideale, magari). La mostra è curata da Sergio Risaliti e da Francesca Campana Comparini, compagna di uno dei bracci destri del sindaco Renzi. Ma questo non è contestuale. Fino al 27 luglio.

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