Dostoevskij – Sartre: Sottosuolo e Nausea riemersa
Immedesimarsi nelle vicende narrate da Dostoevskij in “Memorie dal sottosuolo” equivale a sgranare gli occhi e la mente su un capolavoro del romanzo psicologico, con tutta la violenza meta-psicologica che quelle pagine riescono ad esercitare. In fondo, avrà di sicuro riflettuto il loro autore nel corso della stesura, cosa importa dotare il protagonista di connotati anagrafici? Quel che davvero sarebbe contato era l’indagine spietata sui dissidi insanabili dell’Io, della coscienza; sì, proprio quella fichtianamente intesa, bacino assoluto di grandezza titanica e, modernamente, sprofondamento nel “sottosuolo” del titolo. Il sottosuolo dostoevskijano è il luogo del sudiciume del vivere, è la sofferenza auto-inflitta dopo che è decaduta, o mai esistita, ogni nobiltà di senso dell’esistere. Il romanzo è del 1864 ed ha ancora alle costole la stagione del romanzo naturalista, l’opera illuminista che viene fuori spontaneamente e che resta fedele al reale fenomenico. La trama del romanzo è nota ai più ed induce a sorvolare sui contenuti, ma la ragione di questo breve scrivere sta nel richiamare un atteggiamento condizionante, asfittico, che corre lungo le pagine delle “Memorie”: quando il protagonista, malato di fegato e superata la soglia dei quarant’anni, con una carriera da incolore funzionario alle spalle, quando egli dunque ha assunto la distanza dalla società, dal secolo grondante di vanità e dai suoi simili incapaci di riflessioni sull’essere, ecco il canone inverso che lo rigetta nella medesima poltiglia vivente che egli è andato deprecando. Flashback ai tempi in cui non era “una persona malata”. È lo sgretolamento di tutto, soprattutto per il lettore, che nella prima parte si è trovato dinanzi ad un convinto accidioso, arroccato in un’inattività che è ascesi postmoderna dell’uomo urbano di fine Ottocento, l’uomo che squarcia la tela e ripresenta un autoritratto più giovane: e in quel ritratto egli è la copia dei simili tanto disprezzati. Quel che si rende asfittico nel romanzo è l’ostinazione della creatura umana (ecco perché il protagonista non è una figura singolativa), assurda per una sorta di missione nel mondo a sua volta ancor più assurdo, a gettarsi nel flusso degli eventi, e non per spirito di profitto, né di costruzione condivisa, ma per auto-danneggiarsi ed umiliarsi da sé, sfregiandosi l’anima con la consapevolezza di non appartenere a quello che, tuttavia, ha voluto fortemente vivere. Così la ricerca delle rivalità, così le convenzioni sociali, così le frequentazioni anche più intime (si veda il rapporto fugace con la prostituta Liza): un indistinto cratere di deprimente inconcludenza. E non per disgrazia ricevuta, ma per la caparbietà di volersi sentir parte del flusso. In quel divenire, “il personaggio è abbandonato da tutto, in mezzo a un mondo anch’esso abbandonato da tutto” (Debenedetti). Una stessa visione che, per diversa prospettiva di analisi, sembra lontanissima dalla “Nausea” di Sartre, dal soggetto sterilizzato al coinvolgimento con l’inerzia nauseante della vita attorno; invece si toccano, le due posizioni, nonostante i quasi settant’anni di iato. Il Dostoevskij delle “Memorie” è l’eccesso che, al termine della farsa, va in clausura nel sottosuolo; lo scrittore esistenzialista aveva già archiviato la lezione, la sua creatura vagava per la città e continuò ad assistere alla parata delle buone famiglie all’uscita dalla messa domenicale. Stesse condizioni, dunque: il mondo aveva continuato a non dare risposte al soggetto e i due non si appartenevano, né comprendevano. Il sottosuolo nel Novecento era ormai riemerso tra i viventi, perché è pur sempre vita, ma si sarebbe risparmiato infinite e frustranti illusioni.