Le donne del 6° piano di Le Guay

Fuori concorso al Festival di Berlino 2011, Philippe Le Guay presenta una pellicola connotata dalla beffarda e tumultuosa tensione di far congiungere, fosse anche per brevi istanti microstorici, due princìpi di attitudine all’esistenza (meglio alla coesistenza, forse) che si scrutano reciprocamente, tra la sufficienza e il garbo utile a  non sovraccaricare le difformità. I terreni sociali ed esistenziali si snodano e sono ripresi con transizioni continue della sceneggiatura tra lo strofinaccio delle Donne al 6° piano (piace scriverlo in maiuscolo) e le apprensioni alto borghesi della Borsa e dell’agenzia di cambio presso cui è impiegato Jean Louis. I mondi dualistici si confrontano con il beneficio di una calma registica che non diventa mai prolissa: da un lato doppi petti inseriti in contesti sociali e professionali collettivi, fatti di rassegnata coercizione ai ruoli, dall’altro le inquadrature ad una Maria (Natalia Verbeke) appena giunta a Parigi, che emerge da un suggestivo viale della capitale, tra colori freddi non certo mitigati dai marmi pronunciati delle facciate. Il tentativo di congiunzione vive dei primi contatti, con la moglie di Jean Louis, piena della propria posizione, se non proprio di sé; e poi i tre minuti e trenta per l’uovo à la coque e l’abito con una dignitosa scollatura quadrata, che occorrono a Maria, assunta perché va di moda la spagnola in casa, perché questa diventi agli occhi di Jean Louis più signora di chi pretende di esser chiamata e riverita tale. Al sesto piano le vicende delle donne di pulizia, costrette a diversi compromessi per spartire gli angusti spazi, rendono l’ambiente un “diffusore” di un’umanità più autentica, che investe di una buona simpatia lo stesso Jean Louis, nelle sue sempre più frequenti visite al piano. Mentre lui stempera il sussiego (nonostante una nauseante latrina in comune intasata e poi risistemata per suo interessamento), la moglie è alienata nelle recensioni de Le Figaro con colazione a letto e in partite di bridge. Nelle riprese da esterni, il brio delle donne del “sommo piano” si traduce in frasi incrociate, da una finestra all’altra, che fanno affannare con gusto i movimenti di camera, fino a concedersi un montaggio serrato e polifonico. La leggerezza riflessiva delle donne attrae come una sirena Jean Louis, impacciato e benefattore, “un santo” che concede telefonate internazionali e abito da sposa ad una di loro; un uomo innamorato e a rischio di asfissia, che lui gestisce attraverso forme espressive quasi tutte interiori. Le sequenze dedicate alle faccende svolte dalle donne al 6° piano vanno incontro al musical, emanano una fragile e suscettibile allegria, ma il contrasto con la serva che si porta dentro l’immagine dei genitori sgozzati e trascinati per strada dai franchisti genera sensazioni vertiginose e spiazzanti. Intanto le tradizioni si dissolvono, con un fluido ritmo narrativo, e dunque alla malora la devozione per l’uovo à la coque non troppo cotto non troppo crudo. Jean Louis, scalciando tra le remore e le nostalgie di una donna ritornata dal suo figlio del peccato, si avvia in auto per una Spagna rurale, aperta, ventosa; il pudore lirico avvertibile nell’ultima scena e nei sorrisi di Maria da lui corrisposti, in presenza del piccolo Miguel, è tutto quanto si attenda, senza spiarne gli sviluppi. Le distanze iniziali si trasformano in flamenco, in un presente che Maria e Jean Louis iniziano a vivere nel momento stesso in cui il film termina.  

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