Don Checco al San Carlo
L’opera buffa, burla ma fino a un certo punto – Se qualcuno fosse alla ricerca della forma risolutiva per l’opera buffa italiana al termine della sua gloriosa evoluzione finita a metà Ottocento, non potrebbe far a meno ne di Don Pasquale di Gaetano Donizetti, ne di Don Checco di Nicola De Giosa. Ambedue scritte in tarda età, come anche il conclusivo Falstaff di Giuseppe Verdi, dopo il fiasco con Un giorno di regno, chiaramente ispirata da Gioachino Rossini – che divinamente creò il genere lirico buffo in due atti in sole … sette opere. La nostra scelta cadrebbe su Don Checco non perché l’ultima opera buffa in assoluto a essere composta (1851), ma soprattutto perché, oltre a esserne la quintessenza, anticipa l’evoluzione del genere che a breve diverrà vaudeville oppure operette – tutte e due di certo futuro parigino.
Ecco perché la sua recente programmazione al Teatro San Carlo di Napoli al termine della stagione 2013-2014 rappresenta non soltanto una chiara opzione da parte dell’ente partenopeo per un’opera poco nota inquanto poco rappresentata, ma anche un elogio a un compositore di stirpe barese, ma di formazione e carriera musicali fortemente legato a Napoli dove fu a lungo direttore del Massimo – e non solo perché appartenente alla cerchia di Gaetano Donizetti…
Basata sul libretto di Almerindo Spadetta, attivissimo al Teatro Nuovo attorno a metà Ottocento, l’opera buffa Don Checco ha una trama poco prevedibile, con insoliti coup de théâtre – in primis… l’intervallo che lascia in sospeso l’impossibile triangolo amoroso tra i due innamorati Fiorina e Carletto e il loro presunto mentore Conte de’ Ridolfi, in verità il povero Don Checco che non manca di furbizia e, come si vede, anche di ben camuffata passione. Oltre ai travestì del Conte – veri (il pittore Roberto impersonato da Salvatore Grigoli) o falsi (Don Checco) – l’opera propone la tipica figura del factotum alla Figaro – il titolare dell’osteria Bartolaccio (un malleabile Giulio Mastrototaro) che dispone di tutti, ma, come si svela al termine, solamente ai fini personali, acconsentendo di sposare la figlia solamente dopo le sue nozze… Come anche la coppia donizettiana Norina – Ernesto, anche Fiorina (eccezionale Carmen Romeu, una rossiniana pura, cioè valenciana, ma di…Pesaro) e Carletto (il convincente napoletano Fabrizio Paesano) si amano nonostante le differenze sociali dovute alla rendita e anche contro la volontà dei loro più anziani protettori. Poi, a proposito della somiglianza con Rossini gastronomico che sosteneva che “l'appetito è per lo stomaco quello che l'amore è per il cuore”, eccoci anche qui in cucina assaggiare le tipiche pietanze del posto – in primis gli spaghetti dorati: ma guai a spezzarli, il gesto rappresenterebbe un vero e proprio sacrilegio… Poi, anche se non c’è una gazza, ci sta comunque chi sostituirla nel ruolo di ladro involontario: naturalmente è lo stesso disgraziato Don Checco che si merita il linciaggio del popolo (eccellente il coro di Salvatore Caputo) chiamato ad acclamare il Conte… Tanto più quanto il suo di linguaggio e l’unico in napoletano (un Bruno Taddia in ottima forma basso-baritonale ricorda che a quei tempi il napoletano non era un dialetto, ma ben una lingua officiale)… Musicalmente l’opera è un capiente contenitore dell’epoca: la confusione organizzata rossiniana estesa al contrappunto, il valzer del secondo atto destinato ad allentare le tensioni librettistiche, gli accordi danzanti di cancan sui tavoli anticipando Offenbach… In tutto ciò, la visione del regista Lorenzo Amato ha poco da tramutare, se non immortalando i momenti clou con inaspettati stop quadro, oppure, al contrario, esacerbando, con l’aiuto del direttore d’orchestra Maurizio Agostini (a sostituire Francesco Lanzillotta nell’ultima replica) la dinamicità nella scena unica dello spettacolo concepita “all in one” da Nicola Rubertelli per le dimensioni ridotte del Teatrino di Corte del Palazzo Reale.
Quello che invece ha fatto da sale e pepe dello spettacolo di Nicola De Giosa proiettandolo nella più stringente attualità sono stati i personaggi impersonando le ufficialità che oltre a chiamarsi per esempio Succhiello (l’esattore di Vincenzo Nizzardo) si rendono colpevoli di situazioni oggi largamente diffuse, dicessi per colpa della crisi: “Soffre pure sto dolore co' l'orchestra il direttore, la cantante e lo cantante, quanno manca l'onorario, quacche debbeto à da fa". Ma questa è un’altra storia.