Islanda e la Bjork più elettronica Homogenic (1997)

Persona, ferita o integra, e Natura irriconoscibile, filtrata da secoli attraverso il silenzio. La dicotomia che ricerca riconciliazione, attraverso le strade non asfaltate dell’Islanda, i suoi fenomeni devastanti (anche nel fascino), poi una penna, un tratto di trucco spesso 4 cm, a comprendere palpebra e sopracciglia, poi in sala d’incisione. Per anni. Il mondo che in Islanda non è stato, ma un po’ ne rivive i gradi di definizione. E tiene d’occhio Bjork, la Betulla caleidoscopica, che a trentadue anni esce con “Homogenic”, quarto album solista dell’artista di Reykjavík, se si eccettua “Gling – Glò” del 1990, con il Trió Guðmundar Ingólfssonar. Il capitolo “Homogenic” è ispirato ad un proposito, fremente di sfida; ancor più, nella open track “Hunter” le parti percussive elettroniche preludono ad una importante dichiarazione di confronto, espressa da Bjork in termini di ricerca strumentale, limiti di personalità e fusione di questi ultimi con l’immanenza vivificante della Natura. “Hunter” introduce ad una battuta di caccia cibernetica, mutevole, il cui ritornello si informa del tono glaciale della voce, trattata con effetti phone e poi sostenuta dai primi movimenti di archi, mentre imperversa la raffica di rullanti fino al termine. Una prospettiva innovativa, che mentre agevola il decollo di svariate declinazioni elettroniche, non chiude a chiave con le sezioni di archi e sulla cantabilità sinuosa, come in “Yoga”. Cinque minuti di andamento estatico, dove impera la pulsazione umana al centro dell’universo visivo, nello slancio di una lirica compenetrazione di sostanze. È una musica che guarda alla contemplazione, adoratrice del vento gelido, mentre si lascia strappar via ogni forma umorale dall’interno; che ha il coraggio di modellare l’esterno maestoso sulle (dis)armonie dello Spirito. Accettato il percorso di descrizione musicale sul territorio islandese e sul proprio io, da parte di Bjork, si avvertirà un ingigantimento del suo profilo femminile in diverse altre tracce del disco, incuneata tra le maglie armoniche e le proiezioni sentimentali; proprio queste tengono in serbo una caratura femminile pugnace, coraggiosa nell’osare, attraverso il progredire del proprio stato senziente e della memoria, che si fa deliquio in una serie di modulazioni, o, si preferirebbe dire, di assestamenti armonici. Esemplare “All neon like”, dove un peregrinare tra due tappeti armonici, uno originario in Do minore, l’altro a seguire in Si bemolle minore, congiunge psichedelico e quiescenza, catarsi, là dove si ritorna nuovamente in Do minore e il cromatismo Sol bemolle – Fa – Sol si risolve, a 2.03, in un primo sopirsi di tensioni, entro cui si muovono, comunque, alcuni fremiti gestiti tra le note di settima e di nona. La replica si realizza a 3.19, integrata dal rough personalissimo (“Don’t get angry with yourself” ). Nel sobrio e bistrofico “Immature”, gli inserti in islandese colgono nel segno almeno quanto le terze minori in Fa diesis minore, eseguite da Bjork a 1.53 e 2.26, dove la svisatura, nel pesante graffiato, riflette lo spastico rimpianto della protagonista (“How could I be so immature?”). Le sedimentazioni creative (ma ovviamente anche emozionali, se questo non genera omologia) scaricano una forte frammentazione centrifuga nella traccia 11; in “Pluto” la vocalità sembra in sostanza andare incontro allo stile electro – minimal, che martella fino all’ultimo secondo, lasciando che l’esecuzione di Bjork diventi stridore, incagliato nel sistema elettronico e da questo sconvolto. Le vertigini artefatte dell’elettronica pura si stemperano di molto in conclusione, nella rinnovata “simpatia” (intesa alla greca, armonia pervasiva tra gli elementi) prodotta in “All is full of love”, versione differente già rispetto a quella realizzata per il “Greatest Hits” del 2002. Si segue un’effusione tangibile di placidità, la voce è carica soltanto di pacifica identità, caratterizzata dal topico ricorso ai tappeti tastieristici e degli archi, oltre che dagli interventi di arpa. Continua a battere la dimensione della memoria, dell’affronto paradossale al sé, per provocare scossa e rinvigorimento, acquisizione; è la reminiscenza di un viaggio metaspaziale, che può durare pochi attimi ma essere estraneo alla caducità, perché nel tramite la determinazione in segni musicali si è resa categoria della mente e dell’anima, e riecheggia ancora a lungo, come il protrarsi della traccia in fade – out che riconduce al silenzio.   

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