Salvatore Minieri,: I padroni di sabbia (Villaggio Coppola – storia di un declino)
L’ho letto d’un sol fiato, nell’arco di una serata: la vicenda è avvincente come quella di un delitto di cui si vuol scoprire l’assassino.
Per procedere in ordine, fin dalle pagine della premessa si nota il tono fortemente ironico che s’insinua nella trattazione: “lo stupro di cemento che si abbatteva su questa sabbia era coperto da un cartello a pochi chilometri dai quartieri abusivi, diceva “Città dell’Uomo, Paradiso dei Fiori”. Per 30 anni ci hanno creduto tutti”. (pag. 13)
E l’ironia continua nella apposizione di una dichiarazione all’inizio del racconto; si tratta della frase di Renato Golia, un gestore del Gran Bar Pinetamare negli anni 60 e primi 70: “A metà agosto, a causa della fortissima richiesta d’acqua, quella potabile s’esauriva, e dalla falda si pescava acqua in parte salata, in quei giorni servivamo caffè all’acqua di mare, ma nessuno protestava, perché in quegli anni, qui, erano tutti felici”.
Terminata la lettura del volume, ho trovato una strana coincidenza con quanto aveva letto qualche giorno prima nel primo volumetto (quello sul Natale) dedicato dal Corriere della Sera nella serie “Le parole di Papa Francesco”, laddove nella presentazione dell’opera, si dice: “Potremmo prendere le mosse dal valore che Bergoglio dà alla parola scritta. Anzitutto una constatazione che può sorprendere: Francesco non è uno scrittore, non scrive per pubblicare. I suoi libri sono parlati”.
Ora, se è lecito paragonare i piccoli ai grandi uomini, io oso paragonare lo stile del giornalista Minieri a quello riferito al papa Bergoglio: insomma voglio dire che il libro do Minieri è un libro appunto “parlato”, sincero spontaneo.
Veniamo quindi al primo capitolo: “Tra pantani e dune, spunta la Los Angeles delle bufale: l’alba di Villaggio Coppola”. Ciò che mi ha colpito nella lettura di queste prime pagine è – per usare le parole dello steso Autore – lo “stridore tra odore di santità e terribili afrori nelle stalle della campagna domitiana” che insieme caratterizza la toponomastica antica della zona: San Castrese, Via Vaccara, Via Asinara, il Garamone de le bufare, i Mazzoni, toponomastica che si provò a modernizzare in omaggio al modernissimo villaggio turistico che si andava costruendo. Ma non ci fu verso. L’antico resisteva. Ma ormai quella zona stava per perdere definitivamente l’aspetto millenario rappresentato dai canti degli uccelli migratorii, il rumore della risacca tra le dune.
A questo punto la microstoria si fa macrostoria: c’era qualche piccolo problema perché le idee dei Coppola si concretizzassero: una azienda aveva la concessione fino al 1969, di tutta la foce del Garigliano per l’estrazione di minerali ferrosi, ma la faccenda fu presto risolta con una liquidazione faraonica all’interessato (un nipote di Papa Montini!).
Significativo è il titolo del capitolo successivo: “E in Africa, come per magia, iniziava una storia simile a questa: stesso Paradiso di cemento e ville. Stesse storie pubblicitarie”, con la differenza però che la Las Vegas africana ancora resiste.
Proseguendo nella lettura, veniamo a conoscere un altro aspetto interessante della passione dell’Autore: il rispetto e l’amore per l’ambiente. Infatti, per costruire il porto, furono spazzate via 150 specie di animali: le cinciallegre, la rara lepre selvatica e la Vanessa una delle farfalle più belle del mondo. Una strage di animali, ma anche di piante e fiori: lecci e pini, gigli e santoline ecc.
Ed ora ecco un gioco di parole basato sulla omofonia: “Il fiume era l’oro, il fiume era loro”, una bella sintesi per significare come dal fiume si estraesse sabbia che era oro e ancora per dire che il fiume non era più un bene pubblico, bensì privato, di proprietà dei Coppola. E qui s’inserisce l’episodio dei resti di un’arcata del ponte romano (ultimo testimone muto della Domitiana antica, un gioiello di storia) che viene fatto saltare con la dinamite per far passare le chiatte cariche di sabbia. Ed è da sottolineare a questo proposito come l’Autore riesca ad umanizzare quelle pietre: un pezzo di storia antica si anima, tanto che quell’arcata era chiamata “coscia di ponte” sulla quale ragazzini spericolati facevano sosta nell’attraversare a nuoto le acque del fiume nei bagni estivi.
Le cronache successive – lo confesso – mi hanno attratto di meno; ma ho appreso un episodio – non si finisce mai di apprendere cose nuove – un episodio interessante sul piano storico: quello della rivolta dei giunchi del 1816-1817, in cui le donne di Castel Volturno si rivoltarono contro il Generale Nugent.
La narrazione continua per concludersi con gli scontri tra gli stessi fratelli Coppola.
Concludo sottolineando ancora una volta che il volume si fa leggere per il suo stile “parlato” oltre che per la ricchezza del contenuto che spazia dal presente ad un antico passato, da una piccola realtà di Terra di Lavoro a vicende politiche romane per giungere al Sud Africa.
Pignataro Maggiore 11 febbraio 2014