Perché “genovese”?
“Piglia no bello vacante de nateca, de tre rotola, lo miette dinto a na cazzarola co sale, e pepe e tutta spiezie, e no quarto de lardo pesato; miette la cazzarola ncoppa a la fornacella, e farraje zoffriere sempe ma doce doce mettennece ogne ntanto na sbruffatella d’acqua caura e accossì co na santa pacienzia farraje cocere la carna; e quanne vide che s’è cotta nge miettarraje no poco d’acqua de cchiù, e sa pecchè? Pecchè te serve pe nge connì la pasta; po l’asciuttarraje chianillo chianillo, e la miette diuto a lo vacile, e la puorte ntavola”. Così, nel suo trattato di gastronomia intitolato “Cucina pratico-teorica”, Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino nonché appartenente ad un’antica famiglia nobile che discendeva direttamente dal famosissimo Guido Cavalcanti, indica con il termine “genovese” un “zuchillo” che si ottiene cucinando con pazienza e a fuoco molto lento la carne. Inoltre, il suddetto testo, che vide la luce a Napoli nel 1837, costituisce il primo ufficiale riferimento alla ricetta come parte integrante della tradizione napoletana. Una domanda, dunque, sorge spontanea: perché un piatto tipico della tradizione gastronomica napoletana si chiama “genovese”? Oltre all’ipotesi che ne attribuisce la paternità ad un cuoco napoletano soprannominato “o genoves”, ne esistono altre tese a ricostruire le origini di questa specialità tutta partenopea la cui storia sembra realmente avvolta in un alone di mistero. La prima ci riporta nel periodo aragonese, durante il quale pare che il porto brulicasse di bettole tenute da cuochi genovesi che avevano la consuetudine di preparare un pezzo di carne detto “u Tuccu” con un sugo a base di cipolla. Altre fonti relative alla medesima epoca alludono all’arrivo al porto di marinai della “Superba” (appellativo con cui Petrarca, in occasione di un suo viaggio a Genova del 1358, fregiò la città) che portavano con sé le proprie abitudini alimentari. La questione è complicata da un’ipotesi che addirittura ci condurrebbe a Ginevra (in lingua locale “Geneve”, ergo “Genovese”) dove un cuoco ginevrino introdusse una variante della soupe d’oignons (la zuppa di cipolle) a Corte. La cipolla, non a caso, rappresenta un ingrediente ricorrente nella cucina elvetica. Più recente, risale infatti al 1971, è la scoperta presso l’Archivio Nazionale di Parigi del “Liber de coquina” di un anonimo trecentesco gravitante intorno alla cerchia fidata di Carlo II d’Angiò. In questa miscellanea di ricette una, la numero 66 chiamata “De Tria Ianuensis” (Della Tria Genovese), fa al nostro caso per il nome e gli ingredienti. Il termine “tria” (deriva probabilmente dall’arabo “itriya”, o dal greco “itria”), come avvalorato da altre fonti della medesima epoca, indicherebbe la pasta alimentare. È probabile che la ricetta dell’anonimo del Trecento intendesse portare a conoscenza solo la salsa, senza specificarne l’uso con la pasta, per la mancanza di diffusione della stessa presso la corte napoletana trecentesca. Aneddoti, fonti letterarie, vicende storiche non permettono, ancora oggi, di svelare questo mistero etimologico, per cui la domanda è sempre la stessa: ma perché “genovese”?