Vittorio Messina «In un certo senso infinito»
«In un certo senso infinito» è il titolo della mostra di Vittorio Messina che sarà inaugurata sabato 25 marzo alle ore 19 presso la sede di Nicola Pedana Arte Contemporanea in piazza Matteotti 60 a Caserta. L’esposizione, curata da Marco Tonelli, rimarrà aperta dal 25 marzo fino al 22 maggio 2017.
«In un certo senso infinito – sottolinea nel suo testo Marco Tonelli – vuole essere un titolo di una mostra, ma anche una provocazione intellettuale, un modello visivo, una comunicazione estetica, un’affermazione che sollecita domande. Cosa si nasconde nel certo di un senso infinito? Certo come certezza o, al contrario, come modo in(de)finito e vago di esprimere un significato? E senso allude all’aspetto sensibile dell’esperienza, quello appunto dei sensi, o al significato, alla direzione? Come se esistesse un senso dell’infinito, una direzione infinita? Tutto dipenderà appunto da come interpreteremo l’infinito compreso nel titolo. Concetto di per sé impensabile nella sua interezza, proprio perché senza fine e quindi senza limiti per esseri finiti e limitati come noi, l’infinito lo possiamo solo dire o scrivere, simboleggiare (∞), avviare in sequenze numeriche (1…3…5…7…11…13…), ma mai fisicamente contenere. Vittorio Messina è un artista a cui piace sfidare inafferrabili e sottili inquietudini, praticando installazioni che vogliono spingersi oltre la loro pur oggettiva materialità costruttiva. Le sue opere sono tentativi di uscire dalla gabbia del pensiero razionale, dalle ovvietà dei dati sensibili, dai dogmatismi del trascendente, anzi ambiscono in un certo senso a fondere razionalità-sensibilità-metafisica nell’opera d’arte. Oltre la metafora, oltre l’analogia, forse l’opera di Vittorio Messina è da sempre in cerca di un’estetica basata proprio sull’in un certo senso, essenza stessa dell’Arte, che è a sua volta un concetto inafferrabile, non delimitabile, illimitato. Ovvero, in un certo senso, infinito».
VITTORIO MESSINA (Breve biografia ragionata)
Vittorio Messina compie gli studi all’Accademia di Belle Arti e alla Facoltà di Architettura di Roma, città nella quale vive e lavora e dove, alla fine degli anni Settanta, esordisce nello spazio di Sant’Agata dei Goti – punto di incontro e luogo di sperimentazione della giovane arte di quegli anni, con “La Muraglia Cinese”, una mostra articolata intorno all’omonimo testo kafkiano.
Già con la “Muraglia” e con le mostre alla galleria ‘La Salita’ di Roma (1982) e alla galleria Locus Solus di Genova (1983), il lavoro di Messina è orientato verso una forma di scultura ambientale dove scompare progressivamente l’uso di materiali organici e naturali. Così, passando per le mostre alla galleria Minini di Brescia (con Garutti nel 1985), al PAC di Milano, alla mostra ‘Il Cangiante’ curata da Corrado Levi (1986), Messina espone le prime “celle” nel 1986 alla Moltkerei Werkstatt di Colonia e alla galleria Shimada di Yamaguchi (Giappone), veri e propri edifici costruiti con materiali seriali di uso edilizio, di solito autoilluminati con lampade industriali.
Nella sua ricerca l’artista ha elaborato ripetutamente questa iconografia come unità di riferimento, sinonimo della “stanza”, elemento base dell’architettura e in specie dell’edilizia urbana. Dalla metà degli anni Ottanta Messina, utilizzando i materiali e i modi, ha messo in evidenza l’”abuso” consumato dall’arte in rapporto al degrado e alle tematiche ambientali e sociali in atto nelle periferie metropolitane.
Nel 1987, a Palazzo Taverna in Roma (Incontri Internazionali d’Arte), all’interno di un ciclo dove si succedono gli interventi di Maria Nordman, Bruce Naumann e Luca Patella, Messina costruisce una ‘cella’ e pubblica un testo, ‘Paesaggio con luce lontana’, dove affiora la tematica heisenberghiana dell’indeterminazione, già presente peraltro nella mostra ‘Spostamenti sulla banda del rosso’ di Villa Romana (Firenze 1985). Da questo momento il lavoro di Messina si svolge con stringente continuità visionaria nel grande ‘Krater’ esposto alla mostra ‘Europa Oggi’ del Museo Pecci di Prato (1988), nell’installazione totale alla galleria Oddi Baglioni di Roma dello stesso anno, fino alla mostra ‘Aetatis suae’ alla galleria Tucci Russo di Torino (1990), dove uno schermo televisivo fuori sintonia fa da contrappunto a una serie di cinque grandi nicchie, che svolgono con una sorta di ‘scrittura plastica’ il tema della nominazione.
Successivamente, dalla ‘cella’ della galleria Minini di Brescia (1991), a quella del Kunstverein di Kassel (1991) e della galleria Victoria Miro (Londra, 1992), ma anche della ‘Stanza per Heisenberg’ (opera notturna per Edicola Notte, Roma, 1991), come nelle 24 finestre della mostra ‘Lux Europae’ di Edinburgh (1992), fino ai lavori del Castello di Girifalco, Cortona (con Thomas Schutte, 1993), l’opera di Messina si configura, con l’imprevedibilità e il disincanto di un vero e proprio cantiere metafisico. Un’idea, questa, che si sviluppa a partire dagli anni Novanta, nelle mostre al Kunstverein di Dusseldorf, alla Villa delle Rose di Bologna, alla National Galerie di Berlino, al Museo di Erfurt, al Museo di Leeds, fino alle grandi installazioni nei “Dialoghi” (Maschio Angioino e Castel dell’Ovo, Napoli, 2002), integrando una forma di mobilità e di precarietà radicali all’immagine della città come organismo improprio e artificiale. Nella mostra “A village and its surroundings” (H. Moore Foundation, Halifax, 1999) alcune installazioni includono l’uso di film-video nella prospettiva del ‘tableau vivant’, della ‘segnalazione’ e del ‘controllo’. In ‘La discrezione del tempo 1’ (Museo Ujasdovki, Varsavia, 2002) e in “Una città visibile” (chiesa di San Paolo, Modena, 2004), e poi ancora nelle “Cronografie, o della città verticale” (Cavallerizza Reale, Torino, 2006), e in “Momentanea Mens” (DKM Foundation, Duisburg, 2009), lo spazio-tempo dell’habitat umano tende a espandersi ulteriormente, fino alla dilatazione estrema di “Hermes”, un’opera della durata di 72 ore, divisa in 9 “Capitoli”, nata dall’elaborazione di un film di 42 minuti primi, in formato 8 mm del 1970 (Insel Hombroich, 1970/2008). Nelle opere esposte al MACRO (“Eighties are Back”, Roma, 2011) e poi nel confronto con Thomas Schutte alla Villa Massimo (Roma, 2011), Messina rafforza la componente tautologica del suo lavoro e avvia una nuova riflessione sulle forze e le dimensioni dello spazio reale, come nel 2013 al Museo delle antiche Mura Aureliane di Roma, dove si rapporta ancora con un ambiente fortemente segnato dalla storia e dagli eventi. Nel 2014, con le due grandi mostre al MACRO di Roma e alla Kunsthalle di Goeppingen, sul tema di “Postbabel e dintorni”, i nuovi “Habitat” evocano temi profondi, dove il soggetto della città riemerge come riflessione sull’origine del linguaggio e della stessa forma dell’arte come tensione e portato culturale della comunità umana. Una complessità, questa, che pervade i nuclei plastici di “Teatro Naturale prove in Connecticut” della grande mostra all’Albergo delle Povere di Palermo (Museo Riso, 2016), che segna, insieme all’originario recupero kafkiano, l’impervia proiezione nel sistema della incompiuta modernità della globalizzazione.