Il rispetto della giustizia
Questa settimana ha fatto scalpore la notizia che i legali di Totò Riina, il noto boss mafioso, avrebbero ottenuto dalla Suprema Corte per il loro assistito la sospensione della pena o, in via subordinata, gli arresti domiciliari in virtù delle sue malandate condizioni di salute, dopo che il Tribunale di sorveglianza di Bologna aveva rigettato tali richieste.
Totò Riina, oggi ottantaseienne, fu incarcerato nel 1992 per scontare diversi ergastoli e, dal 2013, è detenuto nel carcere di Parma in regime carcerario ex articolo 41-bis.
Diversamente da quanto frettolosamente diffuso da fonti scandalistiche la prima sezione della Corte di Cassazione con sentenza numero 27766 di lunedì 5 giugno scorso ha solo deciso di annullare la decisione del Tribunale di Bologna rimettendo gli atti al Giudice del rinvio.
Gli Ermellini hanno infatti ricordato in sentenza che mantenere una persona in carcere nonostante il decadimento fisico può essere contrario al senso di umanità e dignità, prescritti dalla Costituzione senza eccezioni, e potrebbe risolversi in una detenzione inumana, vietata anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Dunque non è vero quanto si è diffuso in rete e su alcuni quotidiani in ordine a presunte agevolazioni già accordate al boss ma solo che la decisione è stata rinviata per un più approfondito esame suggerendo degli spunti di riflessione.
Il caso, tuttavia, ha scosso le coscienze di mezza Italia.
Se è pur vero che in uno Stato di diritto si deve garantire a chiunque la possibilità di morire in modo dignitoso per ragioni umanitarie ed etiche, è altrettanto vero che non si può dimenticare le malefatte, anzi gli orrori, che sono stati attribuiti a Totò Riina e la sua posizione di leader nell’organizzazione mafiosa.
Per tali ragioni, chiaramente, andrebbe esclusa qualunque ipotesi di sospensione della pena o di arresti domiciliari.
Questo, evidentemente, non solo per via della pericolosità sociale tuttora insita nel soggetto ma anche per rispetto alle tante efferate uccisioni che i Tribunali italiani gli hanno addebitato.
Ci si dovrebbe domandare se le vittime di mafia a lui riconducibili hanno mai beneficiato del lusso di morire in modo dignitoso. Se, ad esempio, è considerabile dignitosa la morte a suo tempo ordinata per Falcone, Borsellino e gli addetti alle loro scorte o per i tanti altri trucidati in altre numerosissime occasioni, spesso con modalità davvero inumane come lo sciogliere i corpi con acido solforico.
In uno Stato civile quale è il nostro non si può certo arrivare a desiderare l’applicazione della legge del taglione, anche se le efferatezze di alcuni delitti suscitano dei moti popolari in tal senso, ma ben si dovrebbe ritenere che il Riina possa dignitosamente morire nell’infermeria del carcere, con tanto di assistenza sanitaria e anche, se lo desidera, munito di un conforto spirituale.
Una decisione in tal senso sarebbe, forse, trasversalmente condivisa come rispettosa di un principio di giustizia veramente giusta di cui, oggi più che mai, si sente davvero l’esigenza.