L’Europa di oggi e la Seconda Guerra Mondale
Un conflitto pericolosamente dimenticato e strumentalizzato, che inghiottì perfino la cultura sportiva. L’Europa in cui viviamo oggigiorno, si sa, è diventata per molti un semplice sinonimo di catene, disoccupazione, immigrazione incontrollata e disastro sociale. La moneta unica, da ideale di casa comune, libertà di movimento e incremento dei diritti di tutti, è stata addirittura trasformata nel feticcio di un mostro da abbattere quanto prima, un vero e proprio Frankenstein cucito alle nostre spalle per volontà di pochi uomini con intenti amorali e suicidi. Con l’articolo di oggi, che ovviamente ha sempre finalità culturali, vorrei però ricordare ai cortesi lettori le disumanità che il Vecchio Continente, non ancor soddisfatto del sanguinosissimo e tecnologico primo scontro, la Grande Guerra del “15-18”, come siamo soliti chiamarla, fu capace di raggiungere all’inizio del secolo scorso. Tutti oramai sappiamo che il lungo periodo di rivoluzioni e sconvolgimenti sociopolitici del ‘700 e ‘800 si può riassumere nelle questioni che portarono inevitabilmente alla Prima Guerra Mondiale, mentre pochi ricordano che la Seconda, quella nella quale gli italiani si incamminarono a partire dal 10 giugno del 1940, fu la naturale conclusione di tutto questo percorso. Un cammino cosparso di sangue, non petali di rose, che chiese il raggiungimento del più infimo livello di crudeltà, pregiudizio e violenza per farci toccare quel fondo dal quale l’Europa riuscì poi a risalire creando, finalmente, le premesse per una duratura pace che, ancora una volta molti dimenticano, dura ininterrotta dal 1945. A poco servono le strumentalizzazioni politiche che cercano di definirla e mostrarla come fittizia e truffaldina a causa, si sa, della guerra fredda, del conflitto nella ex Yugoslavia e via discorrendo. La realtà cruda ed oggettiva è che l’Europa vive, tra alti e bassi, una stabilità dal 1945, da quando si chiuse quel terribile conflitto, la World War II, che coinvolse buona parte del pianeta e uccise milioni di persone tra stermini, battaglie di terra e bombardamenti aerei culminati nel disumano uso della bomba atomica. È per questo che dovremmo ricordare a noi stessi, e farlo comprendere alle nuove generazioni, che la guerra vera fa male, porta davvero morte e distruzione, e, soprattutto, annulla l’esistenza nelle sue più piccole espressioni. In Campania lo sappiamo bene se pensiamo, proprio per fare un esempio banale ma significativo, che a Napoli, città più bombardata d’Italia, la guerra cancellò non solo le vite umane ma anche la cultura, da quella altissima fatta di sacralità e reperti inestimabili fino a quella più popolare e vicina alla gente come lo sport. La città del golfo, dopo aver già subìto la propagandistica deturpazione del suo volto urbano con gli orti di guerra, con i poco efficaci blindamenti dei numerosi beni culturali locali, e ancor peggio con il sequestro dei materiali ferrosi tra cui cancellate, campane, picchiotti e targhe metalliche di palazzi, parchi e perfino urne elettorali, piombò presto nella tragedia della guerra grazie ai copiosi bombardamenti inglesi che, dal 1941, iniziarono via via a deturpare sia le bellezze antiche quanto le più giovani opere moderne. Le bombe, ancor più con l’arrivo degli americani nel dicembre del ‘42, cancellarono caffè storici, hotel illustri, chiese antiche, aree archeologiche ma anche moderne architetture razionaliste del primo dopoguerra, nel cui percorso si erano inserite di diritto opere come lo Stadio Ascarelli. Così, tra le dolorose distruzioni di luoghi storici come il Caffè Vacca, che nella Villa comunale accoglieva con serenità il gioco dei bambini, i romantici amanti di inizio ‘900, nonché gli attori dei primi film muti che, a Napoli, si giravano anche in questo paradiso di cremolate di frutta e aromatici caffè, la perdita di una neonata identità sportiva regionale si concretizzò la notte tra il 10 e l'11 luglio 1941, quando una pioggia di bombe arrecò gravi danni al primo e unico stadio di proprietà del Calcio Napoli e alla vicina Piscina XXVIII ottobre, due delle tante espressioni del rinnovamento architettonico di fine anni venti. In particolare lo stadio, costruito tra il 1929 e il 1930 nel Rione Luzzatti, nei pressi della stazione centrale, era stato progettato da Amedeo d'Albora su commissione del primo Presidente della squadra calcistica del Napoli, l'ebreo Giorgio Ascarelli. La struttura, in grado di contenere circa ventimila spettatori, tanto cara ai napoletani anche perché dal 1926 avevano finalmente ottenuto un unico valido team di calcio cittadino, unendo i vari piccoli club semiprofessionistici, fu inizialmente denominata ‘Stadio Vesuvio’ o ‘Stadio Ascarelli’, ma quando si decise di usarla per i mondiali italiani del '34, a causa delle vergognose leggi razziali, fu rapidamente rinominata ‘Stadio Partenopeo’ con il preciso intento di nascondere le origini ebraiche del proprietario Giorgio Ascarelli e, ovviamente, non urtare la sensibilità della nazionale nazista. A causa della guerra, e dei numerosi danni subiti nel corso dei bombardamenti aerei sull'area della stazione, dal quale non era molto distante, lo stadio è andato perduto, e ad oggi l'unico indizio della sua esistenza resta nel nome che mantiene il vicino rione di case, conosciuto appunto come Rione Ascarelli. Accanto alla sua ardita struttura, tra l'altro, sorgeva anche la ‘Piscina olimpionica XXVIII ottobre’, particolare architettura contraddistinta da una volta ordita su moderni archi parabolici in cemento armato, aperta nel 1938 e così chiamata per celebrare la marcia su Roma. Come lo stadio, anch'essa fu vittima illustre degli eventi bellici, e con una demolizione tecnica si perse un'ulteriore testimonianza storica della città. La guerra a Napoli, città più bombardata d'Italia e con i maggiori danni al patrimonio artistico, storico, economico e paesaggistico, diventò una tragedia oltre ogni immaginazione, talmente grande da coinvolgere perfino la cultura sportiva di una metropoli che oggi vive anche del mito calcistico della sua squadra e del famoso Pibe de Oro argentino. La guerra, cari amici lettori, è questo. È distruzione, annullamento, disuguaglianza, ritorno ad uno stato primitivo nel quale si distrugge il futuro e soprattutto la speranza. Si, perché ciò che noi chiamiamo beni culturali, nell’accezione più moderna del termine, che include anche fabbriche, uffici, esercizi commerciali, botteghe artigianali, strutture sportive e ricreative, è quell’insieme di speranze, abitudini e tradizioni che ci permettono, attenzione, non di sopravvivere ma di vivere pensando al domani. Un domani fatto di lavoro, di partecipazione ad un evento sportivo, religioso, sociale, insomma un futuro fatto di vita vissuta che la guerra, invece, annulla istantaneamente relegandoti allo stato brado di animale con semplici necessità e pulsioni di sopravvivenza. Noi in Campania lo sappiamo bene cosa vuol dire guerra. L’Europa di oggi va migliorata, rivista forse, ma non abbattuta. L’ideale di una pace duratura basata sulla collaborazione, sull’unione di differenti culture, dalle quali prendere il meglio, è un’utopia possibile. Tutto il resto è solo avvicinarsi ancora una volta all’autodistruzione.