Samuel Johnson, un famoso sconosciuto
Noi italiani sappiamo assai poco dell’inglese Samuel Johnson (1709 – 1784), critico letterario, poeta, maestro di saggezza e di vita che, idealmente, si inserisce tra i grandi spiriti umani, a fianco del Lessing e avanti al Goethe e che direttamente, o forse indirettamente, agì sulla formazione degli ideali del Parini, dell’Alfieri e del Foscolo. Il cammino della sua storia, la visione del suo mondo, potremmo definirli l’ottimismo di un forte. Duramente provato dalla sorte, figlio di poverissimi genitori, aveva conquistato il suo posto sulla terra, aveva sciolto la letteratura inglese da ogni legame col mecenatismo dei nobili Lords ed era diventato l’oracolo e l’eclettico animatore della vita intellettuale londinese, ricordato per la capillare ricerca lessicografica, che fu alla base del suo A Dictionary, with a grammar and history of the English language (1755), a difesa degli inaccettabili francesismi.
Incline a perpetuare, per tutti, il rude noviziato che gli era stato imposto, come mezzo per rivelare l’uomo, vantava un conservatorismo assai più coriaceo di quello di un gentiluomo di nascita. Era naturalmente portato, contro l’indirizzo razionalistico del 700, a cui egli stesso per molti altri spunti partecipava, a riconoscere una nazionalità e una giustizia integralista che fosse il cardine della struttura politico sociale del suo paese. Non amava i piani di innovazione ab imis, i sogni di un ritorno allo stato di natura e le riforme ad esse ispirate. Detestava cordialmente David Hume e il suo empirismo scettico. Non si lasciava stornare dagli inconvenienti e dalle ingiustizie che gli ordinamenti tradizionali creavano. Riconosceva che ogni legge si riferisse ad una media generale. Credeva nell’umana felicità, o per lo meno, razionalmente ammetteva che ad essa si dovesse tendere e perciò non disprezzava né il lusso né il commercio, che alimentavano il lavoro ed elevavano il tenore di vita.
Tory intransigente e devoto della Chiesa Anglicana, non amava discutere di religione o di politica. Non sarebbe stato avverso ai cattolici se non fosse stato contrario, con intransigenza, a quanto nella Chiesa romana sopravviveva dell’etica monastica. Vedeva chiaro nella struttura del cattolicesimo e, senza volerlo, fornì ai nuovi apologeti cattolici dell’800 alcuni importanti spunti. Riteneva che fosse inutile questionare su argomenti dogmatici. Non era in grado di intendere come le forze sovversive, che egli stesso combatteva, fossero animate da un pathos religioso, eversivo e costruttivo insieme. Era portato a considerare gli elementi positivi delle istituzioni e dei sentimenti, che gli impulsi delle passioni e della ragione tendevano a rovesciare. Notevoli gli argomenti con cui giustificava e sosteneva il “timore della morte”, o meglio, di ciò che è oltre la morte. Tale paura la giudicava talmente istintiva che “la vita in terra altro non è che uno sforzo per tenerne lontano il pensiero. Tanto migliore è un uomo, tanto più teme la morte, avendo una più chiara visione della purezza infinita”.
Possedeva concetti ben consolidati sulle distinzioni sociali e sulla subordinazione, necessaria per la vita del consorzio umano. Se tutti fossero stati uguali, non vi sarebbe stata altra gioia che il mero piacere animale. A chi, ad esempio, gli riferiva le argomentazioni di una donna che, vittima del tradimento del marito, rivendicava un’analoga libertà, il Johnson replicava: “Assurdità, caro amico! Al contratto matrimoniale, oltre all’uomo e alla donna, partecipa anche la società. E quando lo si consideri un sacramento, anche Dio. Perciò non lo si può sciogliere col solo consenso delle parti. Le leggi non sono fatte per casi singoli, ma per gli uomini in generale”.
Secondo lui, i partigiani dell’uguaglianza avrebbero voluto abbassare gli altri al loro livello e non accettare che potevano essere gli altri ad innalzarsi.
Riconosceva, sia pure nei limiti di una particolare condizione di costume, il duello. Sosteneva che il battersi in singolar tenzone non coinvolgesse i contendenti in un impeto di collera, ma per legittima difesa, al fine di evitare una condanna o la ripugnanza della società. Egli non si elevò mai al concetto di un cambiamento storico, tuttavia mirò al pieno sviluppo eudemonistico degli uomini nel lavoro e nella collaborazione. Essi dovevano accettare le leggi sociali come condizione di esaltazione. Non così i reazionari, che tale tesi indirizzarono verso l’asservimento eterno o verso una bruta ed atea gerarchia di un Dio disumano. Permettere che arbitrariamente si modificassero le leggi, equivaleva, per lui, privare la società delle leggi stesse. L’uomo sarebbe stato governato solo dall’opinione.
Si potrebbe continuare a “spigolare” lungamente sul pensiero di Samue,l Johnson, senza però riuscire a renderne la fisionomia complessiva. Il letterato inglese visse sempre sotto il segno della ragione liberatrice, di una saggezza che è pur sempre interessante, anche là dove sembra scalfita dal corso dei secoli.