‘A morte lloro è cu ‘e sasicce

Nel periodo autunnale c’è un contorno che più di ogni altro troneggia sulle nostre tavole. Parliamo dei “friarielli”, infiorescenze appena sviluppate della cima di rapa che generalmente si seminano a spaglio a fine estate o all’inizio dell’autunno e costituiscono uno degli ingredienti più popolari della cucina napoletana. Oltre i confini del territorio campano sono quasi sconosciuti e in altre parti del meridione denominati in maniera differente. Il termine ha una doppia etimologia: alcuni lo fanno derivare dal castigliano "frio-grelos" con cui si designano broccoletti invernali, mentre altri ritengono che derivi dal verbo napoletano “frijere”, ossia friggere (infatti, i friarielli vengono perlopiù cucinati soffritti in olio d'oliva con aglio, sale e poco peperoncino). La loro popolarità si deve al solito ingegno dei napoletani che da prodotto di scarto ne hanno fatto un ingrediente principe della gastronomia campana. Difatti pare, che nei tempi che furono, quando Napoli ospitava oltre alle centinaia di poveri anche le ricche famiglie d’Oltralpe, i Monsù solevano gettare alla plebe gli scarti della cucina, le interiora di pollame ed altri animali, “les entrailles” che divennero il nome delle popolane, le zandraglie, che portavano via dalle cucine dei nobili avanzi di cibo. Tra gli scarti, la cima della rapa, che ai tempi i poveri francesi non sapevano potesse diventare tanto deliziosa se cucinata nel modo giusto. Nella cucina napoletana i friarielli formano un binomio inscindibile con la salsiccia, con cui si è creato fin da subito una sorta di amore a prima vista tramandato oramai da generazioni. E, infatti, secondo un detto napoletano “‘A sasicc’ è ‘a mort d’ ‘o friariell”, quasi come se non ci fosse abbinamento più godurioso di questo. C’è addirittura chi ha dedicato al friariello una divertente filastrocca, la quale recita :‘A guagliona, era na’ rapa. / Nun teneva proprio capa; /quanno jeva dint’a scola /nun capeva ‘na parola. /“Quanto soffro, nun se sape /(s’a chiagneva, ‘a cim’e rape). /E’campà nun me ne firo./ Sa che faccio? I’ mò m’acciro!” /Ditto nfatto, ‘a copp’o scuoglio /se menaje pe dint’all’uoglio. /Ma chest’uoglio era vullente. /Che dulore, che turmiente! /“E mò sì, ca songo fritte!” /“Vrucculè, stateve zitte! /Ora site assai chiù belle: /diventaste friarielle!”.

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