Il ripetersi della storia
E' di questi ultimi giorni, se non mesi addirittura, il gran parlare e, conseguentemente, il clima di tensione e di paura, a livello mondiale, che si è venuto a creare per la diffusione, sempre più pressante, di notizie circa la reale possibilità di un conflitto nucleare, scaturita dalla farneticante schermaglia tra il Leader maximo nordcoreano, Kim Jong-un, ed il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.
Al di là di quello che potrà realmente accadere, non c'è comunque motivo di stare allegri, di fronte a questo nuovo segnale di proliferazione.
Si sta cancellando, così, d'un soffio tutto l'impegno politico, diplomatico e strategico, che era riuscito, nell'ultimo trentennio, a far vivere il mondo in uno stato di serena tranquillità. Si sta rimettendo in moto quella macchina infernale che Enrico Fermi, Eugene Wigner e collaboratori avevano paventato quando, il 2 dicembre 1942, riuscirono ad accendere il primo esempio di “candela” nucleare. L'urgenza, a quei tempi, era dettata solo dalla corsa che Hitler aveva segretamente lanciato nel suo paese, al fine di realizzare la “Superbomba”.
Quando il Progetto Manhattan partì, negli Stati Uniti, i nazisti avevano un vantaggio di due anni. La buona sorte, per il nostro pianeta, fu un errore di calcolo (alcuni pensano voluto), infinitesimale ma madornale, compiuto dagli scienziati tedeschi, che portò fuori strada il Progetto-A nazista. Nel Progetto Manhattan erano impegnati i cervelli più potenti del mondo libero, terrorizzato di finire sotto la spietata dittatura nazista. Il timore di non arrivare per primi, serpeggiava nel ristretto gruppo dei responsabili, al corrente di tutti i dettagli e, quindi, delle enormi difficoltà che il progetto doveva quotidianamente superare. Il 16 luglio 1945, ad Alamogordo, nel deserto del New Mexico (USA), tutti i dubbi vennero cancellati: esplodeva la prima bomba nucleare della storia e, tra gli scienziati impegnati nel Progetto Manhattan, si accese il dibattito su cosa sarebbe successo in seguito. Wigner elaborò la sua previsione: entro vent'anni, almeno trenta paesi avrebbero avuto quel terribile ordigno. Anche Fermi pensava che sarebbe stato impossibile bloccare la proliferazione nucleare. Non si pensava, ai tempi di Almogordo, che quella bomba sarebbe diventata la miccia di un'altra, ancora più potente: quella a Fusione, detta “H”. Altro che proliferazione di bombe-A. Le “pessimistiche” previsioni dei fisici del Progetto Manhattan sarebbero state superate dai fatti.
Innanzitutto, si sarebbe passati dai dieci chiloton (diecimila tonnellate di tritolo equivalente), della bomba a Fissione (A), ai Megaton (milioni di tonnellate di tritolo equivalente), delle bombe a Fusione (H). Il numero delle testate avrebbe toccato l'incredibile livello di cinquantamila, mentre ad Alamogordo si pensava a non più di trecento ordigni, tipo Hiroshima e Nagasaki. Il dilagare della macchina nucleare non è stata orizzontale: trecento bombe da qualche decina di chiloton fra trenta paesi. Bensì verticale: cinquantamila bombe da un Megaton l'una, nelle mani di due paesi soltanto. Le cose sono andate quindi in maniera diversa. Il 99% delle bombe nucleari sono finite in mano alle due superpotenze, Stati Uniti ed Unione Sovietica. Il restante 1%, negli arsenali degli altri tre paesi ufficialmente noti come nuclearizzati: Cina, Inghilterra e Francia.
Ad Alamogordo, chi avrebbe immaginato che saremmo arrivati a scongiurare il pericolo di “Olocausto Nucleare”? Che potesse crollare il muro di Berlino, nessuno aveva mai osato sperarlo. E con l'abbattimento di quel muro, ritornò la previsione di partenza: la proliferazione inevitabile. Si andava verso il disastro nucleare e bisognava fare di tutto per bloccarlo, cercando, nel peggiore dei casi, di limitarne le catastrofiche conseguenze. Gli USA e l'URSS, per evitare la reciproca distruzione, in caso di conflitto, avevano, già agli inizi degli anni '70, adottato, e non senza reciproca fatica, la cosiddetta strategia “dell'equilibrio del terrore”, ufficialmente denominata MAD (Mutual Assured Destruction); in buona sostanza, una forma di dissuasione volta a scoraggiare il potenziale nemico dall'effettuare un attacco nucleare, sotto la minaccia di sottoporlo ad una massiccia rappresaglia, qualora avesse attaccato per primo. Nacque, di conseguenza, in tutti gli Stati liberi, la corsa alla “costruzione” di una difesa comune, di uno Scudo in grado di proteggere, in modo sicuro, i propri Paesi da missili portatori di stragi. Si arrivò alla realizzazione di un programma, denominato SDI (Strategic Defense Initiative), ma più conosciuto sotto il nome di “scudo spaziale”. Lo SDI consisteva in una difesa, articolata su tre fasi diverse, corrispondenti ad altrettante settori di traiettoria di un ipotetico missile balistico intercontinentale. Passiamo ad una breve rassegna delle sue caratteristiche essenziali. La prima fase consiste in un sistema in grado di distruggere i missili quando sono ancora nell'area di chi li ha lanciati. Un missile a lunga gittata, quando parte, produce una potenza uguale a quella che serve per illuminare un'intera città, grande come Milano. Questa potenza è però concentrata in poche centinaia di metri quadri. Il satellite riesce a captare la fonte di questa energia e fa scattare il segnale d'allarme. E si cerca di intercettare il missile. Se fallisce la prima fase, si passa alla seconda. E cioè l'intercettazione lungo il volo.
Questa è forse la più facile delle tre. C'è tempo, infatti, per cercare di colpirlo senza sbagliare. Sulla base di calcoli puramente teorici, si può arrivare ad un livello altissimo di sicurezza. Solo un missile su centomila riuscirebbe a passare. Ne basta uno però e per una metropoli è la fine: un milione di morti.
Ecco quindi la terza fase, con l'utilizzo dei Super-Patriot. Un sistema che cerca di distruggere il missile quando quando è già diretto verso il bersaglio. La Guerra del Golfo ha permesso all'opinione pubblica mondiale di apprezzare i Patriot: quei missili che hanno evitato decine di migliaia di morti. Gli MM-104 Patriot (nella nuova versione a lancio verticale) sono lo stadio primitivo della terza fase. In totale, la traiettoria di un missile balistico intercontinentale viene percorsa in 31 minuti circa ed è solo durante questo brevissimo tempo che l'SDI può e deve operare.
C'è un altro aspetto che non va dimenticato: quello della armi chimiche e batteriologiche. Sono tutti ordigni di sterminio contro intere popolazioni. Queste armi costituiscono un problema, per certi aspetti , più critico e difficile delle armi nucleari (sembra un paradosso ma è così). Esse infatti non richiedono alta tecnologia. E un qualunque “squilibrato” a capo di una nazione può armarsi di questi tremendi “ordigni”.
Ed ora ci risiamo. Esperimenti, allusioni, minacce a cui rispondono altre minacce, hanno fatto, come dicevamo, ripiombare il mondo intero nella tremenda consapevolezza che quanto credevamo ormai solo un superato pericolo del passato possa, da un momento all'altro, ripresentarsi come possibile realtà.
C'è solo da sperare che quel famoso “equilibrio del terrore”, di cui abbiamo parlato all'inizio, sia, ancora oggi, quel validissimo deterrente, capace di tenere a freno delle menti che hanno perso ogni forma di lucidità e di buon senso.