La condanna dell’immortalità
Roma. “Non voglio raggiungere l’immortalità col mio lavoro. Voglio arrivarci non morendo. Non voglio continuare a vivere nel cuore dei miei compatrioti. Voglio continuare a vivere nel mio appartamento”. (cit.: Woody Allen)
L’idea che un giorno tutto finirà, che di noi non resterà più nulla, nel momento della riflessione, ha da sempre spaventato l’essere umano. Molte religioni tradizionali danno grande importanza alla comprensione e all’accettazione della morte. La possibilità della sua “eliminazione” solleva parecchie questioni impensate. Si immagini l’Ufficio di consulenza per i cittadini, assediato da persone che stanno decidendo se accettare la vita eterna o che riferiscono i problemi imprevisti che sono sorti dopo che l’hanno scelta, essendosi lasciati convincere dalla telefonata promozionale, a tarda sera, dell’addetto alle vendite.
Che genere di problemi si troverebbe ad affrontare il malcapitato consulente, in questo mondo di fantasia? La criminologia propone un’affascinante ipotesi di futuro. Forse potremmo assistere ad un aumento improvviso di onestà e a una diminuzione spettacolare di crimine e disonestà, dal momento che le possibilità di non essere scoperti diventano minime, quando c’è tutto il tempo per far emergere la verità? Ma se si viene scoperti, la definizione della sentenza diventa più complicata. Che cosa si dovrà intendere ora per condanna al “carcere a vita”. Può davvero essere per sempre, in casi estremi? E se riguarda un solo periodo, qual è la durata appropriata? Attualmente possiamo pensare a venticinque anni come una frazione della vita media, ma qualunque numero finito è una frazione nulla dell’infinito. La pazienza diventa un’autentica virtù per il criminale. Se si fanno progetti per il futuro lontano, la probabilità che un’indagine colleghi eventi di due momenti diversi diminuisce via via che aumenta il tempo intercorso tra essi.
C’è molto lavoro per gli avvocati. Se si riceve un danno per l’altrui negligenza, come devono essere valutate, ai fini di un risarcimento, la perdita accidentale di una vita umana o una menomazione? Oggi la morte o l’inabilità grave di una persona comportano un indennizzo reversibile alla famiglia. L’entità viene calcolata in modo da compensare la perdita dei guadagni stessi. Ma cosa accade quando questi sono infiniti?
Qualcuno andrà in pensione? Una società, dove i tassi di natalità vengono ridotti per compensare quello di mortalità trascurabile, diventerà sempre più conservatrice, cosicché tutto andrà secondo le esperienze del passato, oppure diventerà esageratamente sperimentale per la tendenza a cogliere l’occasione per tentare di tutto, visto che ci sarà sempre tempo per rimediare se le case vanno male?
Quale sarebbe il futuro del matrimonio? La poligamia diventerebbe popolare? Le liti familiari, su lunghissimi periodi di tempo, porterebbero a una graduale rottura di tutti i legami? Le famiglie estese si dissolveranno fatalmente per l’enorme numero dei loro membri? La fraternità è condannata? Le famiglie, di certo, avranno sempre meno importanza col passare del tempo. Ciò porterà a una coesistenza più o meno pacifica? A prima vista, si potrebbe pensare che le relazioni saranno migliori a causa dei legami familiari, ma sappiamo che buona parte degli episodi di violenza avviene proprio nell’ambito del focolare domestico.
Cosa accadrà a quelle religioni che promettono la vita eterna? Si limiteranno a spostare la loro attenzione sulla qualità, invece che sulla quantità della Vita? Che cos’altro offriranno a dei fedeli che non temono la morte? Per alcune religioni una vita eterna, nel nostro stato attuale, non sarebbe un vantaggio. Questa vita è una preparazione per cose più grandi che verranno. Essere bloccati per sempre nell’anticamera del paradiso sarebbe una condanna, non una conquista. Forse, una reazione inattesa al moltiplicarsi delle persone convinte che vivere per sempre sia una cosa terribile, potrebbe essere un nuovo tipo di religione che promettesse un’esistenza finita nel futuro, un modo di porre fine alla vita in maniera eticamente accettabile. Il “secondo avvento” sarebbe ancora atteso, ma il suo ruolo sarebbe stranamente rovesciato: non più quello di dare inizio alla vita eterna, ma quello di porvi fine. La sua funzione dovrebbe essere quella di trasformare la qualità della vita.
Ci sarebbe una frattura nella società tra i “superattivi”, coloro che reagiscono alla prospettiva di vivere per sempre tentando di fare tutto e gli “ipoattivi”, coloro che non fanno nulla, perché c’è un mucchio di tempo per fare tutto più tardi.
Alan Lightman, nel suo libro I sogni di Einstein, illustra questi due tipi di personalità e li chiama i Dopo e gli Ora, protagonisti di un mondo ultrapolizzato. I Dopo prendono la vita eterna con calma. Non c’è nessuna fretta di incominciare, ad esempio, un corso universitario, di apprendere una seconda lingua, di inseguire un’offerta di lavoro, di innamorarsi, di mettere su famiglia. Per tutte queste cose c’è un infinito lasso di tempo. I Dopo si riconoscono a prima vista nelle botteghe o a passeggio. Il loro passo è rilassato, gli abiti sono morbidi e ampi. Leggono i giornali che trovano già aperti.
Del tutto all’opposto, gli Ora sono individui sempre in azione. La loro distanza dai Dopo diventa sempre maggiore, via via che ottengono risultati, facendo a gara tra loro per vedere chi riesce a concludere di più. Essi sostengono che, avendo a disposizione un numero infinito di vite, potranno intraprendere un numero infinito di carriere, sposarsi innumerevoli volte, cambiare di continuo le loro idee politiche. Ognuno potrà essere, contemporaneamente, avvocato, muratore, scrittore, ragioniere, medico, agricoltore. Gli Ora leggono sempre nuovi libri, studiano nuove lingue e, volendo gustare gli infiniti aspetti della vita, incominciano presto e non rallentano mai.
Gli Ora e i Dopo hanno un’unica cosa in comune. Poiché la vita è eterna, hanno una lista infinita di parenti. I nonni non muoiono mai e neppure i bisnonni, i prozii e così via, all’indietro, per generazioni, tutti vivi e vegeti e pronti a offrire consigli. Nessuno agisce confidando nelle proprie forze. Quando un uomo avvia una trattativa d’affari, si sente spinto a parlarne con i genitori, con i nonni, con i bisnonni, all’infinto, per imparare dai loro errori. Infatti nessuna impresa è del tutto nuova.
La tendenza è chiara. Il matrimonio si riduce ad una sfilza, senza fine, di parenti che offrono consigli. Gli artigiani non escono mai dall’apprendistato. Gli ingegneri non portano mai a termine grandi progetti, perché non c’è limite alla considerazione di cui si deve tener conto e alla ricchezza di esperienza cui si deve attingere. Nessuno è abbastanza sicuro di sé da farsi strada con le proprie forze, perché qualcuno ha già fatto in precedenza qualunque cosa. Il mondo è intasato di progetti incompiuti, rallentato da incessanti riferimenti. La realizzazione personale è difficile, se non impossibile, da conseguire.
Anche i sospetti sono diffusi ed i segreti sono difficili da mantenere. Prima o poi si scoprono tutti e i matrimoni, di rado, durano a lungo. Paradossalmente, a metterli in crisi non è tanto la rivelazione di segreti spiacevoli quanto il pensiero che la fine sia inevitabile. Lo stesso destino attende tutte le amicizie. Si collezionano migliaia di conoscenze effimere, nessuna duratura. La pressione psicologica, esercitata su ciascuno dalla consapevolezza che il possibile è diventato inevitabile, muta e diminuisce la qualità della vita per tutti. La gente comincia a chiedersi se una vita finita di vitalità e autorealizzazione non potrebbe valere di più di una infinità di soddisfazioni sempre calanti. Allora, come si è detto, la consapevolezza che questa nostra esistenza prima o poi, irrimediabilmente, dovrà finire, colpisce tutti. E’ umano. Ma l’alternativa dell’immortalità, non è forse più terribile? Un argomento, questo, da approfondire.