Altro che Austria, l’aggressione Cavour la fece a noi delle Due Sicilie
A pagare le conseguenze dell’invasione “fraterna” dei tosco –padani al soldo dei Savoia e su indicazione del “Grande Tessitore” oggi sarebbe indicato come faccendiere, quel famoso Camillo Benso di Cavour.
Se in questi ultimi tempi anche i libri di storia degli austriaci hanno scoperto le “pentole”, raccontando come davvero sono andate le cose, di quel falso storico chiamato risorgimento, chi dovrebbe e non lo fa, alzare la voce e lamentarsi di ciò che accadde e di ciò che subì e continua a subire, di certo quello è il popolo delle Due Sicilie, ma più di tutti, i veri oltraggiati, vilipesi, offesi, maltrattati e che purtroppo non hanno più voce in capitolo, vista la triste e tragica sorte che gli toccò, sono di sicuro i reclusi di Fenestrelle, quei piccoli grandi eroi borbonici che i vincitori hanno cancellato e che ancora oggi, grazie a scrittori salariati, continuano a essere obliati.
Li ricordiamo noi, ogni anno, ogni prima domenica di luglio, da oltre un decennio a questa parte, ci siamo noi a Fenestrelle, in quella maledetta fortezza che domina la valle del Chisone, sulle alpi piemontesi. Con il nostro pellegrinaggio, per fare in modo che quella vicenda drammatica non sia dimenticata anche se la vulgata storiografica dominante per lungo tempo ha ignorato o minimizzato. In quei luoghi ameni, tristi, grigi, freddi anche a luglio, tra le celle di quell’arcigna prigione, che già Napoleone Bonaparte aveva utilizzato per levarsi di torno i suoi oppositori politici, negli anni immediatamente successivi all’unità, a partire dal 1861, furono rinchiusi a migliaia di soldati dell’ex esercito delle Due Sicilie che non vollero entrare a far parte dell’armata sabauda, ormai italiana, per non infrangere il giuramento di fedeltà prestato a suo tempo al re Borbone. Presenti, nonostante il lungo e dispendioso viaggio, in quei luoghi, che i risorgimentalisti asetticamente affermano che quel carcere come tante altri in quel periodo, e non certo un lager come affermiamo.
Quello che sfugge è che a noi non è mai interessato il numero dei morti borbonici, il conteggio è relativo, è l’azione di italiani contro italiani, di uomo verso un altro uomo, che ci ha sempre indignato, che continua a ferire soprattutto negli ultimi tempi, dove si cerca di negare tutto,addossando a noi invenzioni e vicende accadute in quel maledetto carcere, persino la storia del certificato di uno dei nostri, quel pezzo di carta che attesta la morte di un soldato napoletano, morto di nostalgia.
Fenestrelle addirittura, per bocca di tal Alessandro Barbero, ( non Barbera, come spesso qualcuno indica, anche se le manate che dice fanno ricordare più il vino piemontese che un professore medioevalista, quale pare sia)sia stato un albergo a cinque stelle, invece a noi anni prima che ci fu raccontato, da responsabili della fortezza, di una storia che riferisce di cumuli di soldati napoletani morti.
Da poco qualche giornale del nord ha rivelato di un argomento molto più serio di cui ci si dovrebbe occupare e di cui da qualche tempo, sia pure in maniera sommessa, stanno venendo fuori gli inquietanti risvolti, facendo riferimento esclusivamente a carte, faldoni ed epistolari conservati nell’archivio storico del Ministero degli Esteri e in quello della Marina, che si trovano entrambi a Roma. Questo imponente e variegato materiale cartaceo, in gran parte inedito, consente di ricostruire dettagliatamente quella che andrebbe indicato come “soluzione finale”.
Dopo la caduta repentina del regno borbonico, il nuovo governo italiano si trovò a dover fare i conti con una massa ingente di militari sbandati. L’esercito napoletano non esisteva più e in tanti si erano trovati disperati e senza lavoro. Né le campagne di arruolamento varate dal governo unitario si erano rivelate fruttuose: nelle ripetute chiamate alle armi, infatti, si registrò sempre un altissimo numero di renitenti. A quei militari che erano stati fatti prigionieri nel corso degli eventi bellici e a quelli delle fortezze che avevano resistito all’assedio dei piemontesi (Capua, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto), si aggiunsero quelli che, per non sottostare alla leva obbligatoria, dopo essersi rifugiati sulle montagne trasformandosi in briganti, erano stati catturati nel corso dei vari rastrellamenti. Un numero ingente di prigionieri, difficilmente quantificabile con matematica precisione. Di certo, però, ammontavano a parecchie decine di migliaia. Il governo italiano, in un primo momento, si limitò a rinchiudere tali prigionieri nelle malsane ed insufficienti carceri del sud Italia. Subito dopo però, intuendo la pericolosità della situazione (tutto il territorio duosiciliano iniziava ad essere infiammato dalla rivolta brigantesca), escogitò un gigantesco piano di evacuazione trasferendo via mare gli ex soldati napoletani al nord, lontano dai focolai della sommossa. Il porto di arrivo dei bastimenti era Genova. Da qui i prigionieri venivano smistati nelle varie località di destinazione: Fenestrelle, San Maurizio Canavese, Alessandria, Milano, Bergamo e così via di seguito. Qualcuno fu rinchiuso anche a Genova, nel forte di San Benigno. Altri di varia composizione (ex ufficiali e soldati, briganti, renitenti alla leva, oppositori politici o presunti tali, vagabondi, camorristi) vennero confinati in varie isole: Gorgona, Elba, Giglio, Capraia, Ponza. Più di 12 mila, soprattutto ufficiali e veterani borbonici che si erano rifiutati di continuare la loro carriera militare nell’esercito italiano, furono trasferiti in Sardegna, nelle isole del napoletano o nella Maremma Toscana, sottoposti al regime del domicilio coatto, come prevedeva la legge Pica. Trattati come animali, ammassati nei bastimenti, senza mangiare e bere per giorni, i poveri meridionali, colpevoli di essere rimasti fedeli al loro Re, vennero sbattuti in terre che non conoscevano, fredde, in campi di concentramento inospitali, lontano dai loro affetti e dalla loro terra. Molti non riuscivano a sopportare la disperazione e il disagio e decidevano di mettere fine alla grama esistenza gettandosi in mare. “A Rimini – così si legge sulle colonne di un giornale dell’epoca ‘L’Armonia’ (3 settembre 1861) – il mal umore nei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi”. Con il passare dei mesi gran parte degli ex soldati napoletani venne trasferita nelle prigioni del nord Italia. In tal modo il governo era convinto di aver risolto definitivamente la questione, allontanando dai focolai della rivolta tante migliaia di persone, tenendole distanti dai briganti che continuavano la loro lotta disperata. Non avevano però considerato un altro problema che ben presto si rivelò impellente: i prigionieri napoletani ammassati nelle prigioni del nord erano diventati così tanti da rendere molto difficile il mantenimento dell’ordine pubblico. Nelle prigioni scoppiavano rivolte, sommosse, tentativi di fuga che a stento venivano repressi. Persino a Fenestrelle, nell’agosto del 1861, una cinquantina di prigionieri napoletani aveva tentato di impadronirsi della fortezza. E la stessa cosa si era verificata nel campo di San Maurizio Canavese, alle porte di Torino. La situazione si era fatta esplosiva. In quel periodo, poi, gran parte degli effettivi dell’esercito italiano, ben 105 mila uomini, si trovavano dislocati nella parte meridionale della Penisola nel tentativo di soffocare la rivolta brigantesca. E allora cosa ti inventò la fervida mente dei governanti italo – sabaudi? Una mirabolante “soluzione finale”. Nel tentativo di sgombrare le prigioni del Regno da quella massa pericolosa di ex soldati Borbone, renitenti alla leva, nostalgici, prigionieri politici, briganti o pseudo tali, si pensò bene di “sistemarli” in un posto dove sicuramente non avrebbero dato più fastidio. In Patagonia.
Altro che Austria, come diceva il grande Carlo Alianello “Finiamola di definirci «i buoni» d’Europa; e nessuno dei nostri fratelli del Nord venga a lamentarsi delle stragi naziste. Le SS del 1860 e degli anni successivi si chiamarono, almeno per gli abitanti dell’ex reame, piemontesi. Perciò smettiamola di sbarrare gli occhi, di spalancare all’urlo le bocche, a deprecare violenze altrui in questo e in altri continenti. Ci bastino le nostre, per sentire un solo brivido di pudore. Noi abbiamo saputo fare di più e peggio.“