I Generali di Hitler (Prima Parte)
In tempo di guerra, ogni cosa sembra differente da come risulta nella luce più chiara, che viene dopo. E niente appare più diverso delle figure dei capi. Mentre la guerra è in corso, l’immagine, che di loro si costruisce l’opinione pubblica, non soltanto è irreale, ma varia con le alterne vicende delle operazioni militari.
Prima del conflitto, e ancor più al tempo della conquista dell’Occidente, Hitler parve una figura gigantesca, nella quale si fondevano il genio strategico di un Napoleone, l’astuzia di un Macchiavelli e il fervore fanatico di un Maometto. Dopo i primi scacchi subiti dalle forze tedesche in Russia, la sua figura cominciò a rimpicciolirsi e, verso la fine delle ostilità, egli era considerato, in materia militare, un dilettante sprovveduto, i cui ordini pazzeschi e la sua crassa ignoranza erano stati, per gli Alleati, il maggior punto di forza. La responsabilità di tutte le disfatte dell’esercito tedesco venne addossata ad Hitler; la gloria di tutti i successi, invece, venne attribuita allo Stato Maggiore Generale.
Il quadro non è veritiero, ancorchè contenga una certa dose di attendibilità. Come stratega, Hitler era ben lungi dall’essere sprovveduto. Piuttosto, era fin troppo brillante e risentiva di quei difetti naturali, che tanto spesso si accompagnano a questa dote.
Aveva un senso profondamente sottile della sorpresa e un talento magistrale per il lato psicologico della strategia, che elevò a nuove altezze. Molto tempo prima della guerra, aveva esposto ai suoi collaboratori come poteva essere eseguito l’audace colpo di mano, che poi fruttò la conquista della Norvegia e come i francesi potevano essere snidati per manovra della linea Maginot. Egli aveva anche capito, meglio di ogni generale, come le conquiste incruente, che precedettero la guerra, potevano essere attuate minando preventivamente la capacità di resistenza dei paesi che sarebbero stati aggrediti. Nessun stratega della storia è stato più abile di lui nel far leva sulle debolezze psicologiche degli avversari; e questa, nella strategia, è l’arte suprema.
Fu proprio il fatto di aver tanto spesso dimostrato di aver ragione contro il parere dei suoi consiglieri, militari di professione, che lo aiutò ad accrescere la propria influenza a loro spese. I risultati positivi da lui conseguiti in principio, tolsero peso agli argomenti dei suoi collaboratori in seguito, dinanzi a situazioni che questi ultimi valutavano più esattamente di lui. Nel corso della campagna di Russia, infatti, i suoi difetti prevalsero sulle sue virtù e la partita debitoria si gonfiò sino a trasformarsi in completa bancarotta. Ciò nonostante va ricordato che Napoleone, il quale era uno stratega eccezionale, fu altrettanto abbagliato dai propri successi e commise gli stessi fatali sbagli; e nello stesso Paese.
L’errore più grave di Hitler fu l’ostinazione con cui egli si rifiutò di “contenere le perdite” e insistette nell’attaccare quando le probabilità di successo si stavano ormai dileguando. Ma questo fu anche il difetto più cospicuo di Foch e di Haig, i comandanti alleati della Prima Guerra Mondiale, come pure di Hinderburg e di Ludendorff, Comandanti Supremi dell’Esercito tedesco nella stessa guerra. E tutti costoro erano soldati di carriera. Hitler ebbe pure un grande ruolo nel determinare il crollo delle armate germaniche in Francia, con la sua riluttanza ad autorizzare tempestivi ripiegamenti. Ma anche in questo caso, il suo atteggiamento fu esattamente uguale a quello di Foch. La differenza decisiva fu questa: nel 1918 i comandanti in sottordine non obbedirono a Foch più di quanto a loro opportuno, mentre nel 1944-45 i generali tedeschi ebbero paura di disubbidire agli ordini di Hitler.
Per trovare la vera spiegazione del fallimento dei piani germanici, dobbiamo scandagliare in profondità le cause di tale paura e il conflitto determinatosi in seno all’Alto Comando. L’intuito strategico di Hitler e il calcolo dello Stato Maggiore Generale avrebbero potuto formare una combinazione vincente, capace di conquistare il mondo intero. Invece produssero uno scisma suicida, che significò la salvezza per i nemici.
I generali della vecchia scuola, prodotto del sistema dello Stato Maggiore Generale, erano stati, per tutto il corso del conflitto, i principali esecutori della strategia germanica; ma nei giorni dei trionfi, la funzione da loro svolta non aveva ottenuto pieno riconoscimento. Quando il corso degli eventi cominciò a cambiare, agli occhi dell’opinione pubblica i generali assunsero una parte sempre più di primo piano e i popoli dei paesi alleati finirono per considerarli come l’elemento realmente formidabile del campo avversario. Nell’ultimo anno di guerra, l’attenzione si concentrò in misura preponderante su Rundstedt, il rappresentante più autorevole della casta militare. E l’interrogativo dominante non fu su quello che avrebbe fatto il Führer, ma su quello che avrebbe fatto Rundstedt, tanto in campo puramente militare quanto in campo politico, sotto forma di un colpo di stato, mirante a strappare il potere ai nazisti.
I generali tedeschi sono sempre stati considerati un gruppo strettamente legato e omogeneo, tanto concorde e compatto da essere in grado di esercitare un formidabile potere di governo. Questa convinzione spiega i motivi per cui, da parte alleata, si continuò sempre a nutrire la speranza che i generali potessero, prima o poi rovesciare Hitler, una speranza che non si tradusse mai in realtà; e spiega anche i motivi per cui l’opinione pubblica vedeva in loro una minaccia non meno grave di quella costituita da Hitler e attribuiva a essi un’identica responsabilità per le aggressioni tedesche. Queste convinzioni sulla responsabilità dei generali erano sicuramente fondate nella Prima Guerra Mondiale, ma del tutto anacronistiche nella Seconda. Nello scatenamento di quest’ultima, i generali non ebbero una parte di rilievo; se mai, il ruolo da essi svolto fu quello di un freno inefficace. Provocata la guerra, la loro efficienza esecutiva contribuì, in misura rilevante, ai successi di Hitler, ma i risultati da loro conseguiti furono messi in ombra dal suo trionfo personale. Quando la buona stella del Führer cominciava a offuscarsi, essi balzarono in primo piano dinanzi agli occhi del mondo, divenendo più importanti all’interno del loro Paese.
Ciò era dovuto alla concomitanza di diversi fattori. I generali erano favorevoli ad un assetto politico conservatore e fedeli a una tradizione che esercitava scarso richiamo su una generazione, cresciuta nello spirito rivoluzionario e animata da una fede fanatica del nazionalsocialismo. Nè potevano contare sulla fedeltà delle loro truppe in una mossa contro il regime e, soprattutto, contro il Führer, oggetto di una vera e propria idolatria. La loro capacità di iniziativa era intralciata dal modo come essi stessi si erano messi in disparte dalla vita pubblica e dal modo come Hitler li aveva astutamente tagliati fuori da ogni fonte di informazione. Altri fattori erano la loro radicatissima disciplina e il senso profondo dell’importanza del giuramento di fedeltà che avevano prestato al Capo dello Stato. Per quanto ridicolo potesse apparire nei confronti di un uomo che si era dimostrato così privo di scrupoli nel violare le promesse, questo atteggiamento era nei generali del tutto sincero; ed era anche il più onorevole tra i fattori che intralciavano la loro autonomia d’azione.
Accanto ad esso, però, c’era anche un senso di tornaconto privato che, di fronte ad una minaccia comune, minava alla base, in loro, la lealtà verso i colleghi. Il gioco delle ambizioni individuali e il conflitto di interessi personali costituirono un punto debole e fatale nella lunga lotta sostenuta dai generali, per mantenere la loro autorità professionale in campo militare e per difenderla dalle interferenze esterne. Ciò continuò per dodici anni: dall’ascesa al potere di Hitler, alla caduta della Germania.