Domini collettivi
La rappresentazione del fiume di argomenti che i media portano alla nostra attenzione è ovviamente incompleta, a volte funzionale a interessi di parte, spesso si perde in qualche rigagnolo che meriterebbe invece maggiore considerazione.
È il caso di una legge approvata poco più di un anno fa, la 168/2017 che stabilisce le “Norme in materia di domini collettivi” ed è rivolta in particolar modo ai comuni che hanno meno di 5.000 abitanti, ma anche a quelli che ne hanno un po’ di più, ed offre certezza giuridica ad un modo differente di possedere.
Le forme di “possesso comune” presenti su tutto il territorio europeo in epoca premoderna, chiamavano le collettività locali alla conduzione pubblica delle terre, dei boschi e dei fiumi, e contribuivano a un ordine sociale fondato sulla comunità e sulla proprietà collettiva. Nel corso dell’Ottocento con la diffusione e l’affermazione esclusiva della proprietà privata, quest’ordine è stato spazzato via quasi del tutto, cancellando quell’armatura istituzionale ispirata alla necessità di garantire a coloro che non possiedono nulla, di poter vivere in modo dignitoso e di preservare luoghi, cose e persone da forme di sfruttamento indiscriminato.
Nell’Italia preunitaria la legislazione migliore e più organica è quella del Regno delle Due Sicilie che considerava “…libera ogni terra posseduta dai privati o dai Comuni, finché non si fosse dal feudatario giustificata una servitù costituita” (è il feudatario a dover dimostrare la proprietà della terra e non il colono o chi la coltivava gratuitamente per sé). Il feudatario poteva solo pretendere un affitto, in quanto erano “…inamovibili quei coloni che per un decennio avessero coltivate le terre feudali, ecclesiastiche o comunali, e come assoluti proprietari delle terre coloniche sulle quali è loro accordata la pienezza del dominio e della proprietà senza poter essere mai tenuti a una doppia prestazione” (i coloni dovevano essere considerati come legittimi proprietari e non potevano essere rimossi o costretti a prestazioni servili).
Con l’unità d’Italia la condizione dei contadini peggiorò in quanto i baroni, galantuomini, che avevano favorito la conquista sabauda, trasformandosi in “unitaristi” acquisirono gran parte delle terre demaniali e privarono migliaia di famiglie povere dei secolari Usi Civici, fulcro di comunità di vita.
Servirsi oggi di questa Legge consente alle collettività la gestione (separata dalle amministrazioni comunali) di beni demaniali, e dà l’opportunità di attivare “servizi pubblici di comunità” quale risposta ai processi di spopolamento, oppure permette di acquisire e recuperare edifici dismessi e renderli disponibili per la collettività, si possono anche attivare servizi per il turismo come posti letto extra-alberghieri, o anche interventi idrogeologici …insomma c’è da inventare e muovere passi a protezione di qualcosa di prezioso, e di antico. Per i paesi dell’entroterra del nostro Mezzogiorno è certamente un’occasione da cogliere per la ri-costruzione di un modello economico più vicino al naturale sentire di comunità.