Il Ritratto di Gentildonna di Raffaello Sanzio
Il Palazzo Ducale di Urbino, voluto da Federico III da Montefeltro, è la sede attuale della Galleria Nazionale delle Marche, ed è custode di capolavori e oggetti di grande pregio artistico, tra cui preziose raccolte numismatiche, magnifiche suppellettili, ragguardevoli creazioni figurative e lavori di ceramica di gran vaglia; inoltre conserva un vasto repertorio di fine statuaria, eleganti dipinti su tavole lignee, e tele di rarissimo profilo estetico, tutte opere di inestimabile valore realizzate dal ‘300 a fine ‘800 dalle firme più prestigiose del panorama artistico italiano: tra di esse i lavori del biturgense Piero della Francesca, del pievano Tiziano Vecellio, e degli urbinati Federico Barocci e Raffaello Sanzio. Figlio del pittore Giovanni Santi, Raffaello nacque nel 1483, ed è senza dubbio uno degli artisti del Rinascimento più famosi e apprezzati a livello mondiale: l’eccezionalità delle opere, la magnificenza del tratto, la straordinarietà dell’ingegno hanno fatto entrare nella leggenda il suo talento e il suo gusto raffinato. Pietra miliare della storia dell’arte del suo tempo, ha influenzato le espressioni estetiche delle epoche successive, ispirando il pensiero figurativo e movimenti culturali come la corrente manierista del XVI secolo. La pinacoteca della Galleria conserva i suoi dipinti Santa Caterina d’Alessandria e il Ritratto di Gentildonna. Quest’ultimo olio su tavola è conosciuto con l’enigmatico epiteto di “La Muta”, la cui cronistoria personale la vede nel XVII secolo di proprietà di Sua Eminenza il Cardinale Carlo de’ Medici, Governatore Perpetuo della Città di Velletri, e a Firenze agli inizi del XVIII secolo presso Palazzo Pitti; poi risulta essere a Prato, precisamente nella Villa medicea di Poggio a Caiano, possibile lascito alla moglie di Ferdinando II de’ Medici, la Granduchessa Vittoria Feltria Della Rovere. La ritroviamo poi di nuovo a Firenze presso la cinquecentesca Galleria degli Uffizi, e in seguito ad Urbino presso la Galleria Nazionale delle Marche; il 23 marzo 1976 fu riportata in sede dai Militari della Benemerita, tra la gioia e gli scroscianti applausi dei cittadini, insieme a La flagellazione e la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, opere che l’anno precedente erano state oggetto di furto e trasferite nella città di Locarno. La pittura ritrattistica, nell’età della Rinascenza, rappresentò una testimonianza di prestigio sociale, una dimostrazione di posizione elevata, e non mancarono ritratti in miniato come indice del ceto di appartenenza. La dama ritratta da Raffello non ha, ancora oggi, un’identità certa: qualcuno azzarda il nome della Duchessa Giovanna da Montefeltro, moglie del Duca di Arce Giovanni Della Rovere, altri ipotizzano la Duchessa Elisabetta Gonzaga, consorte di Guidobaldo da Montefeltro, Duca di Urbino. In un articolo di Sandro Premici si legge di uno studio del critico d’arte Enzo Gualazzi, che suggerisce il nome di Maria Della Rovere, moglie del condottiero piorachese Venanzio da Varano, Signore di Camerino. Il quadro manifesta influenze stilistiche fiamminghe, pur rimanendo fedele ai canoni della tradizione della scuola fiorentina: la nobildonna è dipinta a mezzo busto su campitura monocromatica, il volto, austero e misurato, comunica tristezza, e la postura delle mani esprime uno stato emotivo dell’anima. Il tratto fluido del pennello raffaelliano manifesta luminosità: il dipinto evidenzia una luce che mette in risalto i dettagli e i particolari attraverso un gioco di chiaroscuri e contrasti, come le ombre della catenina del pendente o le proiezioni del velo sulle spalle. La donna indossa la tipica “gamurra” rinascimentale con un grembiule bianco e una blusa con punti decorativi scuri sulle maniche. Il rosso del velluto e dei nastri richiama il vermiglio della gemma sulla croce, mentre i corindoni degli anelli, di estrema purezza, hanno funzione allegorica: secondo le consuetudini dell’oreficeria del tempo, il rubino raffigurava l’abbondanza, mentre lo zaffiro rappresentava la purezza. Il dipinto è stato oggetto di tecniche di indagine nella regione dell’infrarosso: tale diagnostica artistica, tramite radiazioni IR, ha permesso di appurare che il Nostro ha apportato cambiamenti alla figura nei tratti del volto e nell’abbigliamento: secondo l’Istituto fiorentino OPD si evince la presenza di studi preparatori, e non modifiche resipiscenti durate anni e legate ad ignote ragioni. Altri studiosi, invece, rintracciano i cambiamenti dovuti ad un lutto familiare della nobildonna, probabilmente il coniuge, e la tesi viene avvalorata dalla presenza iconografica del fazzoletto e da quella allegorica del colore dell’abito.