Homo naturae lupus

Può la natura essere espressione di morte e vita al tempo stesso? Per meglio comprendere tale interrogativo è utile far riferimento a quello che fu il pensiero di Giacomo Leopardi, cantore della natura e delle influenze che quest’ultima esercita sull’animo umano.
Per Leopardi esistevano tre connotazioni pessimistiche: individuale, storica e cosmica, ma quella che probabilmente esprime con maggiore vigore la posizione d’inferiorità dell’uomo è a mio avviso la seconda, quella storica, la quale afferma che sin dagli albori della civiltà l’uomo ha provato la felicità solo vivendo a contatto con la natura, apprezzandone la fallacità degli elementi. Quando poi l’indole umana volle dirigersi verso la ricerca del vero, l’istintiva e primordiale innocenza venne stroncata dall’ardire della conoscenza, difatti nell’epigrafe de “La Ginestra” il poeta colloca una citazione del Vangelo di Giovanni:
«Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι / µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς».
«E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che la luce».
Ciò fece sì che la pia madre benevola, portatrice di vanità illusorie, si pervertisse, dal latino pervertĕre, ‘sconvolgere’, mostrando all’uomo l’angoscia esistenziale, annichilendolo.
Il concetto leopardiano continua in riferimento al pessimismo cosmico che, contrariamente alla tesi precedente, afferma che l’infelicità è un qualcosa di connaturato all’esistenza, un progetto divino di cui l’uomo è succube e per cui la natura è origine dei mali.
Tale affermazione per quanto possa essere convincente è per me un’espiazione dall’imperfezione dell’uomo. Quest’ultimo non potrà mai essere parte di un ciclo vitale armonico come quello naturale, in quanto l’uomo è lupo per l’altro uomo (homo homini lupus).
Così avviene la ricerca che apparentemente trova la causa dei mali in Madre natura, che da sempre pare abbia inflitto sofferenze alle civiltà che si sono succedute nei secoli. Ciò si legge in un’opera del filosofo illuminista francese Voltaire (Storia di Jenni o il saggio e l’ateo) del 1775, in cui lo scrittore parla delle minacce naturali, come il freddo pungente e le eruzioni vulcaniche, a cui sono sottoposti gli islandesi, popolazione che più tardi ispirerà Leopardi riguardo il racconto di un islandese che viaggia, fuggendo dalla natura. L’uomo scappa incessantemente non solo dinanzi alla natura, ma anche dinanzi a quelle che sono le sue responsabilità nei confronti di essa. Secondo una mia interpretazione lo sprezzo verso una natura ritenuta “Matrigna” e che “non rende ciò che promette”, conduce l’uomo ad una mortale indifferenza che si riflette specialmente nei problemi ambientali attuali, e nonostante le mobilitazioni anche da parte della cosiddetta “gioventù bruciata”, ad esempio basti pensare agli interventi di Greta Thunberg, molte buone pratiche giacciono ancora nell’ignavia. È dunque giusta la frase homo homini lupus o dovremmo dire più giustamente “homo naturae lupus”?

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