Il potere dei vinti, perché solo a loro è dato di ricominciare

Non lo so se parlando di libri è politically correct, se si può osare. A me è venuto istintivo, immediato, come per l’enogastronomia, fare l’abbinamento tra l’ultimo libro di Pino Aprile Il potere dei vinti, e una canzone (e un album) di un po’ di anni fa: Com’è profondo il mare di Lucio Dalla.
Per Lucio Dalla segnò il passaggio dai testi di Roversi a testi propri, per un bisogno intimo di esprimere, oltre la musica, in parole, riflessioni sulla condizione umana universale in un’epica del presente. Non il disco più popolare, il più prezioso.
Anche Pino Aprile deve far ricorso a un registro diverso per raccontare lo stato indefinito di un epoca di passaggio, da quella industriale a quella informatica, e il sentimento di sospensione degli uomini di oggi. Ci aveva bene abituato ai suoi saggi, e ora ci vizia e ci sfizia con la narrativa.
Oltre quelli del Negrodolce, padre meridionale dei più popolari vini toscani, e del primordiale Primitivo, i profumi di queste opere sarebbero potuti essere anche mitteleuropei se solo il Danubio non fosse un fiume, se solo fosse mondo e non una sua parte, se ci fossero le salsedini e i venti che scompigliano capricciosamente gli odori e le anime dei mediterranei. Non per niente, Lucio componeva dalle isole Tremiti, e Pino addirittura nel golfo di Leuca, al Capo di Finis Terrae, a stabilire l’esatta linea del corrente: il confine di un mare che avanza in un altro, lo Jonio e l’Adriatico.
Aloisio Lepirro detto U’ Tis, in fuga dalla Bretagna, da quelli che erano stati fino a ieri i suoi principi, da sé stesso, da un lutto e da un dolore passionale che ha cercato di dimenticare, è il protagonista che torna nella sua terra d’origine, apparentemente assopita, e invece utero della terra da ventottomila anni, fulcro di equilibri che disegnano la nuova civiltà, teatro di delitti e di personaggi singolari che disvelano poco alla volta il carattere e contribuiscono in maniera originalissima a definire la trama di un giallo moderno ed universale al contempo.
Un romanzo intenso anche di emozioni, come quella che U’ Tis prova al calore della piccola mano di Pancrazio, un bambino venuto per qualcosa, nella sua “…per quell’affidarsi totalmente che hanno i bambini: porgono la mano e ti consegnano la vita. Credi di condurli e sono loro che, quale che sia la zavorra del tuo passato, portano te nel tempo venturo.”
Per andarci però U’ Tis sa di dover regolare dei conti che troppo a lungo ha lasciato nel cassetto, sa di dover affrontare preventivamente una sfida esistenziale, in una tempesta perfetta. Cogliere il risentimento e l’urlo dei vinti, di tutti i vinti di sempre, e riconoscersi maledicendosi e disperandosi per essersi mentito tutta la vita, per poi perdersi, attonito. Ma “…prima o poi, il lamento del vinto diviene canto di guerra” si dice nel libro, e “…l’urlo diventò un tamburo e il povero, come un lampo nel cielo sicuro, cominciò una guerra” si dice nella canzone. Non a tutti, solo ai vinti è dato di ricominciare.

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