Goya e la vanità della guerra
Uno dei più celebri fautori del superamento della corrente neoclassicista in Spagna fu certamente Francisco Goya, pittore e incisore di origine aragonese, che conferì al mondo dell’arte di fine Ottocento il crescente bisogno di leggerezza e realismo che si fondono e coesistono nelle sue tele: dai “Capricci”, una serie di produzioni grottesche dettate dal subconscio dell’artista in preda all’incalzante malattia che lo rese sordo, alla “sorda” coscienza de “La fucilazione del 3 maggio 1808” sulla vanità della guerra dinanzi alla morte, all’orripilante parricidio di Saturno.
Nato a metà del secolo dei lumi e quarto di sei fratelli, si avvicinò all’arte figurativa barocca italiana ammirando i capolavori del Tiepolo e dei maggiori artisti dell’epoca, alcuni tra i quali Rubens e Bernini.
Tornato in Spagna ebbe importanti commissioni da parte della fabbrica reale, che lo portarono ad essere nominato da Carlo III “pittore del re”.
La componente introspettiva e psicologica dei suoi lavori, basti pensare al “Ritratto di Francisco Bayeu”, arcigno, impresso in una dimensione quasi atemporale, viene tuttavia smorzata dalla “joie de vivre” del Rococò francese: la sombrilla, la luminosità delle figure e l’utilizzo del rosso primario impiegato sulla tela senza alcuna impostazione preparatoria, sembrano preludere allo stile impressionista.
La pressa ne “Il Colosso” e la morsa della distruzione piegano la visione umana di Goya, nella convulsione sfrenata dei soggetti ritratti nella frenetica fuga e istigati o protetti da un colosso di omerica memoria volto di spalle, allusione del conflitto assolutistico tra Francia e Spagna o espressione dei soprusi dell’uomo sulla natura; indifferenza, disperazione, abbandono, temi che ricorrono anche ne “I Disastri della guerra”.
Ed è quello della guerra un tema che per lungo tempo animò la creatività del pittore: le barbarie risalenti al periodo della guerra d’indipendenza spagnola non potevano rimanere senza voce, e quindi un attimo, quello che precede la morte, basta a glorificare un uomo? Questa la domanda che con più frequenza si pose Goya e la risposta fu chiara: non basta un secondo a fare di un uomo un immortale.