A Leonardo Vitale lo presero per pazzo e qualcuno se ne avvantaggiò

Il nome di Leonardo Vitale dice ben poco ai più, anche se è un nome pesante come un macigno, pesante come un peccato infamante e inconfessato a carico della coscienza nazionale. Già, perché certe storie se le tieni un po’ nascoste, se provi a cancellarle mettendole nello sgabuzzino della dimenticanza, quando poi riaffiorano, lo fanno caricate di ulteriori significati che la storia vi ha sedimentato addosso.
Vitale nasce a Palermo in una famiglia di mafia, e neanche maggiorenne, con l’affiliazione alla cosca dello zio Giovanbattista Vitale, diventa uomo d’onore cominciando ad allungare la sua biografia fatta di sabotaggi, estorsioni ed omicidi, nel segno di una carriera tutto sommato prevedibile.
Nel 1972 questo tipo di biografia si interruppe poiché, ritenuto implicato nel sequestro del chiacchierato costruttore Luciano Cassina, venne arrestato e tenuto in isolamento all’Asinara, un “soggiorno” breve che tuttavia dovette segnarlo profondamente se alla fine del marzo del ’73 volle presentarsi alla questura di Palermo per costituirsi.
Raccontò tutto, confessò gli omicidi che aveva commesso, fece i nomi di Salvatore Riina, Vito Ciancimino e Pippo Calò, con dovizia di particolari descrisse i riti di cui si alimentava Cosa Nostra, ne delineò con precisione l’organizzazione, rivelò per primo l’esistenza di una “Commissione” e i legami tra mafia e politica. Tutto questo senza chiedere in cambio contropartite, un decennio prima del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, un decennio prima che Giovanni Falcone potesse poi disporre di informazioni tanto preziose.
Fu considerato seminfermo di mente e costretto a ricoveri forzati nei quali fu sottoposto a cure basate su psicofarmaci ed elettroshock, uno schizofrenico da internare nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, dove dovette scontare la pena comminatagli per le sue stesse dichiarazioni che invece, paradossalmente, non furono ritenute attendibili per perseguire tutti gli altri mafiosi che aveva accusato.
Fortemente segnato nel fisico e nella mente, riottenne la libertà solo nel 1984, per poco, pochissimo, perché Cosa Nostra ha memoria e certe cose se le segna: il 2 dicembre di quello stesso anno due colpi di lupara lo colpirono a morte mentre torna a casa dalla messa a cui ha partecipato nella chiesa dei Cappuccini di Palermo.
Al Maxiprocesso del 1986 Giovanni Falcone commenta: “…a differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita”.

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