Un diritto chiamato libertà
25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, una data che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato come ricorrenza, invitando i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG a organizzare attività di sensibilizzazione sociale. Innumerevoli sono gli stereotipi che hanno caratterizzato fin dall’antichità l’immagine femminile: nei libri di storia individuiamo già nel Codice di Hammurabi (XVIII secolo a.C.), l’idea della donna, come “proprietà del marito” e la figlia nubile di proprietà del padre.
Anche nell’antica Grecia imperante è la concezione della subordinazione della donna all’uomo: Platone ne “La Repubblica” la descrive come essere inferiore all’uomo; Aristotele nei trattati “Fisica” e “Politica” ne giustifica la sottomissione, sostenendo che essa è «per natura più debole dell’uomo». Pitagora vede la figura muliebre generata «dal principio cattivo che creò il caos e le tenebre» e due secoli dopo Euripide nella tragedia “Ippolito” la definisce «il peggiore dei mali». Con la caccia alle streghe, che confessano colpe mai commesse sotto torture crudeli e disumane, giungiamo a discriminazioni che con la follia hanno davvero ben poco a che vedere. Così le donne continuano nel tempo a indossare abiti fatti di lividi, sino ai tempi recenti in cui il femminicidio sembra essere diventato la normalità. Non si tratta, tuttavia di delitti passionali, la parola passione ha un altro significato: [dal lat. passio -onis, der. di passus, part. pass. di pati «patire, soffrire»], indica la condizione di passività da parte del soggetto, che si trova sottoposto a un’azione o impressione esterna e ne subisce l’effetto sia nel fisico sia nell’animo. Di passione nei crescenti episodi delittuosi, pertanto, non c’è nulla, l’amore e la passione sono ben altra cosa. Semmai ci sono il possesso, il dominio, che scatenano orgoglio, gelosia, rabbia: il possesso mancato da parte di un uomo su una donna, il dominio perso dal marito/padre su quelle che considerano loro “proprietà”. Mariti e fidanzati che uccidono perché il loro “possesso” viene messo in discussione, padri che uccidono le loro figlie per aver rifiutato un matrimonio imposto o perché compiono scelte di vita diverse. “Sono scivolata sul tappeto” o “sono caduta dalle scale”, bugie dette per paura, terrore, vergogna, immagini di vite frantumate riempiono ormai la maggior parte dei rotocalchi quotidiani.
Una corsa a ostacoli quella della parità di genere che fatica ad avanzare, nonostante le quote rosa, i decreti attuativi del Jobs Act, i propositi del quinto Obiettivo dell’Agenda 2030. Nessun Paese al mondo si avvicina ai Sustainable development goals (Sdg) ossia agli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dalle Nazioni Unite, tra cui anche la parità di genere. A guidare la classifica mondiale 2019 si trova la Danimarca, paese con meno discriminazioni, mentre l’Italia è 19esima. Il problema secondo Natasha Linhart, fondatrice dell’azienda “Atlante” che esporta il meglio del food made in Italy nel mondo, è culturale: “nell’azienda ci sono dipendenti di ogni età, orientamento sessuale e religione, che dimostrano di apprezzare e lavorare in un ambiente dove ognuno è libero di essere ciò che è”. È necessario secondo l’imprenditrice un percorso formativo che sin dalla primissima età, educhi donne e uomini e faccia comprendere loro che è un dovere e atto d’amore verso se stesse, non chiudere nel silenzio la violenza e che non è l’identità sessuale maschile a “fare la differenza” in quanto in un rapporto basato sulla stima e sul rispetto, se ne può trarre ricchezza reciproca. Purtroppo il paradosso, oggi, è ancora quello che si insegna alle donne come difendersi, quando al contrario si dovrebbero soprattutto educare gli uomini a rispettare la libertà di scelta di ogni donna.