Nel dopoguerra il Sud venne espropriato del proprio pane quotidiano
Qualsiasi scelta politica, particolarmente quelle a carattere socio-economico, operata da uno stato che amministra contesti territoriali marcatamente differenti in termini di ricchezza, è destinata a non essere neutrale e produrrà effetti che inevitabilmente ridurranno o amplieranno le disuguaglianze preesistenti. Questione di scelte è, ad esempio, l’intenzione del nuovo governo Conte di istituire un bonus che renda gratuiti, per i redditi bassi, gli asili nido pubblici. Pare una buona intenzione, o almeno suona bene alle orecchie dei più, se non fosse che, in un Paese come il nostro, la distribuzione delle strutture scolastiche per l’infanzia è tutt’altro che omogenea, e ad un Nord in linea con le dotazioni degli altri grandi paesi europei si contrappone un Sud nel quale lo Stato, per disattenzione (forse disaffezione), non ha trovato le risorse per realizzare nel tempo un’analoga quantità di asili nido.
Ne risulta che la “buona intenzione” finirà col dilatare ancor di più la già scandalosa disparità territoriale, in quanto il bonus, secondo le proiezioni fatte dall’Istat, sarà erogato al 17% delle famiglie settentrionali e solo al 7% di quelle meridionali, determinando uno scippo al Sud di centinaia di milioni di euro.
In fondo la direzione intrapresa, che di questa Italia ne fa due così differenti, è sempre stata una questione di scelte che potrebbero essere rappresentate nelle stazioni di una Via Crucis che il Sud ha dovuto dolorosamente percorrere. Tra le tante stazioni una è stata forse meno raccontata ed è ambientata al tempo della difficile crisi alimentare del secondo dopoguerra, quando il paese si accingeva a mutare da agricolo a industriale. In quel periodo, precisamente nel 1949 e poi nel 1956 vennero varate due leggi che, nel disciplinare le modalità consentite per la panificazione, vietarono l’utilizzo dell’impasto manuale e del forno a legna prescrivendo l’uso obbligatorio dell’impastatrice meccanica e quello del forno a riscaldamento indiretto. Nel contempo i mulini si sarebbero dovuti dotare di attrezzature per la pulitura delle granaglie e per la selezione dei sottoprodotti della macinazione. Chi non fu in grado di sostenere i necessari investimenti per adeguarsi non ebbe scampo e soprattutto nel Sud, sacrificato sull’altare dell’industrializzazione padana e dove i processi di modernizzazione avvenivano più lentamente, dovette chiudere. Ad esempio a Torre Annunziata sparirono in un solo anno ben 21 panifici e due mulini.
In alcuni comuni la gente protestò la propria disapprovazione scendendo per le strade e trovando il sostegno di alcuni amministratori comunali, ma prevalsero le ragioni dei grandi panifici del Nord che si accingevano a conquistare un più ampio mercato, e delle case costruttrici dei macchinari che riuscirono così a scampare un periodo di grande difficoltà potendo tornare a far crescere il proprio fatturato.
Le poche voci che, in Senato e alla Camera, si levarono in dissenso alle leggi in questione, per gli evidenti vantaggi che si concedevano ad alcuni grandi gruppi industriali del Nord, non vennero ascoltate, così come non venne ascoltato lo scrittore Carlo Levi che in difesa del pane casareccio, migliore dal punto di vista nutrizionale, scrisse l’accorato articolo sulla Stampa “Non toglieteci il pane”.
Solo successivamente il bisogno di riappropriarsi dei valori dell’antica ruralità contadina in opposizione alle produzioni industriali portarono, nel 1980, al ripristino dell’uso del forno a legna e dell’impasto manuale, restituendo così al Sud almeno il pane quotidiano.