Yves Klein e le tele monocrome
Yves Klein nacque in Francia nel 1928 e la sua breve vita terminò nel 1962. Figlio d’arte, fu affascinato dal patrimonio culturale nipponico e dal gusto artistico immediato ed euritmico della “Terra del Sole nascente”. Fu un esponente del movimento “Nouveau Réalisme” transalpino ed ebbe il pieno consenso del critico d’arte francese Pierre Restany. I suoi dipinti monocromi furono esposti nelle collezioni dei galleristi Colette Allendy e Iris Clert, le cui pinacoteche neo-avanguardistiche furono punti di riferimento transnazionali del XX secolo. La sua pittura a tinta unita spazia inizialmente su una tavolozza variegata, talvolta con tracce di residui superficiali, ma quando il gruppo d’Oltralpe Rhône-Poulenc realizzò un fissante chimico, il “Rhodopas M60A”, l’artista poté sperimentare nuove forme monocromatiche e si concentrò sul blu, e precisamente sul “blu oltremare”, un pigmento antico che il pittore perfezionò nella tonalità IKB, l’“International Klein Blue”, la cui caratteristica consiste nel possedere il medesimo effetto di luce, analoga saturazione e stessa purezza nello stato “asciutto” mediante l’uso di una resina artificiale prodotta per sintesi. L’IKB è stato realizzato con la cooperazione di Edouard Adam dell’omonima azienda parigina, e il prodotto è ancora oggi commercializzato dalla società del quartier du Montparnasse con il nome di “Médium Adam 25”. La rappresentazione figurativa dipinta dall’artista è l’azzurro-blu intenso, che, secondo l’autore, riesce a colpire le facoltà intellettive e spirituali dell’uomo: con esso Klein colma lo iato tra esistenza ed estetica, il dipingere è per l’artiere ispirazione lirica e la tela evoca atmosfere elegiache. L’osservatore deve vedere la campitura senza margini, senza prigionie spaziali, senza modelli grafici: l’oltremarino, “l’invisibile che diventa visibile”, deve provocare reazioni emotive e introspettive, deve far volgere il pensiero al cosmo e all’ordine universale: nel suo “Manifesto dell’Hotel Chelsea”, il cui titolo è ispirato al noto albergo degli artisti della “Grande Mela”, scriverà di aver “manipolato le forze del vuoto”, di aver “scolpito il fuoco e l’acqua” e di aver “tratto dipinti” da essi, di aver “inventato l’architettura e l’urbanesimo dell’aria”, di voler “rinnovare la leggenda del paradiso perduto”. Quando la Galleria “Apollinaire” del capoluogo meneghino ospitò il vernissage del pittore francese, l’artista Lucio Fontana fu uno degli avventori dei dipinti monocromi e in seguito un estimatore e un appassionato collezionista delle sue tele. Da ottobre 2014 a marzo 2015 il Museo milanese del Novecento ospitò una mostra del pittore nizzardo e, in simultanea, una selezione artistica del padre dello “Spazialismo”: il Palazzo dell’Arengario è stata dunque la sede espositiva di fotocronache, inserti filmati e raccolte di documenti, insieme a quasi cento capolavori, di quei due autori che amavano rappresentare luoghi indefiniti e spazi incorporei, ma che dipingevano atmosfere di colore avvolte da una mistica spiritualità e influenze universali.