Napoli: strazio e fame
Il 21 novembre 1943, alzatosi di buonora, Benedetto Croce si mette al lavoro, nella sua villa di Sorrento, sul volume che dedicherà allo storico napoletano Luigi Blanch. E’ tornata la luce elettrica, dopo quasi due mesi ed il filosofo ne approfitta per riprendere le antiche abitudini di studio. Verso sera vengono in visita gli amici di Napoli, dove non si è ancora recato dopo il rientro da Capri, che gli parlano, in termini angosciati, della condizioni della città, uscita sfinita e vittoriosa dall’olocausto patriottico delle “quattro giornate” (che Croce non ha vissuto e di cui, sembra, non sia nemmeno informato). Se ne scorgono i segni nelle carcasse di camions tedeschi, rovesciati ed incendiati e non più rimossi, nei manifesti sbrindellati delle ordinanze del famigerato Colonnello Hans Scholl, pendenti qua e là, nei buchi sui muri causati dai colpi sparati contro i soldati della Werhmacht, in ritirata. Orribili le devastazioni naziste al porto e quelle provocate dal terribile cannone che tirava sulla città da Castel dell’Ovo, le distruzioni sul lungomare, la miseria e lo strazio lasciati deliberatamente alle loro spalle dai soldati di Hitler, cacciati e sconfitti. I morti fucilati, i deportati, le case fatte saltare, lo sconquasso negli stabili requisiti, il saccheggio, le mine disseminate dovunque, questo lo scenario. Ancora, i crateri ed i mucchi di rovine dalla Concordia al Pallonetto, dal Vomero al Ponte di Chiaia, da San Ferdinando alla riviera, da Via Duomo a Mergellina, dai Camaldoli al Molosiglio. La più regale, forse la più bella città marittima del mondo è irriconoscibile sotto le sue ferite.
Questa è la sventurata Napoli della guerra, alla quale se ne affianca (e la compenetra) un’altra immutabile, quella insopprimibile della sua quotidianità, distaccata dagli eventi e dalla fatalità dell’oggi. E’ la città sui cui muri ancora si vedono gli indifferenti richiami del sapone “Sapol”, dei cappelli “Borsalino”, del talco “Felce Azzurra”, della cipria “Petalia di Tokalon”, dell’acqua minerale “Giommi”, del lucido da scarpe “Brill”, dello sciroppo per la tosse “Famel”, delle biciclette “Majno”, del ricostituente “Fosfatina”, delle cravatte “Nicky”, delle sigarette “Serraglio”: i prodotti dell’epoca. La città dove i ragazzi ancora si indicano, quando passa per la strada, il divino Attila Sallustro, centrattaccante della “SCC Napoli”, che faceva delirare, e sua moglie, Lucy D’Albert, bellissima e famosa soubrette russa, naturalizzata italiana, per cui lui perse la testa ed il posto in nazionale. La città degli scugnizzi, che escono dai “bassi” e sono figli di nessuno, che dormono chissà dove, mangiano chissà cosa e che sono stati l’anima di una rivolta che ha imperversato per quattro giorni nelle strade e che l’ha spuntata sulla potenza e sulle armi dei crucchi, con lo stesso spirito e lo stesso coraggio degli ebrei di Varsavia. Di questa Napoli non sanno niente non solo Croce, che fu assente, ma nemmeno coloro che hanno continuato ad abitarvi: perchè è fulmineamente mutata sotto gli occhi di tutti, con gli avvenimenti, provocando, per contrasto, uno stato di apatica immobilità apparente, della cui fallacia ci si accorgerà quando saranno passati i mesi e si farà il confronto con la nuova realtà in cui si è costretti (o si è scento) di vivere.
Gli Alleati entrano a Napoli il 1° ottobre 1943, alle ore 09,30 del mattino, venendo da Salerno. Arriva per primo il Reggimento inglese dei Dragoni del Re, “King’s Dragon Guards”, per il Ponte della Maddalena e Borgo Loreto, sbucando in Piazza Garibaldi. Li seguono, a poca distanza, gli americani, i canadesi, i neozelandesi, i “gurkha” nepalesi, gli australiani, i sudafricani, i filippini, i marocchini, i brasiliani, tutte le razze del mondo. Sono reduci dalla lunga avanzata dal sud, dallo sbarco di Salerno. Sono stanchi di guerra, avidi di distrazioni e di riposo, attirati dalla fama della grande città mediterranea e dei suoi ozi solari. Resteranno amaramente delusi, al di là del frenetico abbraccio di entusiasmo e di amore con cui li accoglie il popolo al loro passaggio, dopo i tormenti ed il terrore dell’occupazione tedesca. La grande città mediterranea è un livido cimitero, uno scheletro calcinato al sole di ottobre. Le devastazioni sono paurose. Il celebre “Munasterio” di Santa Chiara è in rovina, Via Marittima in macerie, scomparso il Borgo Loreto, saccheggiato l’ex “Albergo dei Poveri”, sventrati gli alberghi del lungomare. Il “Parker’s Hotel”, che aveva ospitato il comando tedesco, era stato minato.
Mancano l’acqua, la luce, il gas. Da settimane sono bloccati i servizi igienici, la spazzatura si accumula a montagne ed è scaraventata nei vicoli dalle finestre. Un odore nauseabondo stagna dovunque, i miasmi della putrefazione costringono a ripararsi la bocca ed il naso con i fazzoletti, per attraversare la strada. Non funzionano i telefoni e la posta, non si distribuiscono viveri. Gli Alleati devono preoccuparsi subito della sorte di migliaia di persone, su cui aleggia il lugubre spettro della morte per inedia. Non sono solo le scatolette di “corned beef”, le sigarette “Victory” ed il “chewing gum” che essi lanciano ridenti alla gente, mentre passano sui loro autocarri tra gli applausi; sono le tonnellate di generi alimentari, che fin dal 21 settembre avevano predisposto di far arrivare a Napoli da Salerno e che ora cominciano a sbarcare sulle poche banchine ancora utilizzabili al porto, davanti agli occhi febbrili di uomini e donne in attesa, per impedire che la fame faccia impazzire la popolazione.
Le condizioni di vita sono da ritorno alla preistoria. Nel tunnel della Metropolitana, nell’ex Caserma Bianchini, nelle gallerie di Chiatamone, Mergellina e Piedigrotta, tra l’umidità colante dalle pareti ed un fetore insopportabile, in una promiscuità orribile, i più fortunati hanno costruito meschine baracchette di cartone e vi hanno trasferito qualche brandina sbilenca, qualche sedia traballante, un po’ di acqua e poche croste di pane. La massa dei senzatetto è all’aperto. Ci sono già le prime avvisaglie di colera e di tifo ed urge spedire medicinali necessari a farvi fronte. Le razioni alimentari non superano il minimo vitale, centoventicinque grammi di pane al giorno. Naturalmente c’è solo pane. All’occupazione tedesca è, infatti, seguita l’inflazione e la frutta e la verdura sono al di sopra delle possibilità della povera gente. I tedeschi hanno portato via o distrutto il 92% dell’intero stock di pecore e bestiame. Allora che si mangia? Si mangiano mele, il frutto dell’autunno. Oppure, chi può, va a Forcella, la strada della provvidenza. Forcella, fulcro del mercato nero, collega il Duomo con Piazza Colletta. Qui ciò che si vuole si trova sempre, in abbondanza e di ottima qualità. La maggior parte della merce proviene dai depositi militari alleati, con la connivenza ed il silenzio degli ufficiali e dei sottufficiali angloamericani. Cosa possono i poveri carabinieri, investiti della sorveglianza, disarmati e forniti di biciclette dai copertoni lisi, contro la losca organizzazione truffaldina camorristica di Forcella, con consegne effettuate mediante autocarri della Marina e dell’Esercito americani? Possono inseguire, pedalando, le Jeep che sfrecciano cariche di “Camel”, di “Lucky Strike”, di “Chesterfield”, di barattoli di latte condensato, di caffè, di stoffe da depositare agli indirizzi dei borsari neri? Possono impedire che passino, di mano in mano, addirittura decine di autocarri, automobili americane, motociclette e, talvolta, qualche imbarcazione “liberty”?
Il Governatore della città, Generale Erskine Hume, ordina il coprifuoco, prima, dalle 19 alle 4 del mattino, poi, si commuove e lo sposta alle 20,30. Resta in casa qualcuno, forse? Sì, i timorati di Dio, le persone innocenti, i benpensanti, gli onesti…. Per gli altri, il coprifuoco è una fortuna. I ladri si incontrano, sicuri di non essere disturbati, i trafficanti contrattano, al riparo da sorprese, le “segnorine” si buttano tra le braccia dei loro “boyfriends” che le aspettano. Basta stare attenti, di tanto in tanto, al passaggio della Military Police, per il resto non c’è pericolo.
E quanto alla buona società, che celebri pure i suoi fasti! Il 16 maggio 1944, riapre il Teatro San Carlo, con l’”Aida” di Giuseppe Verdi. Cantano Pina Esca, Mario del Monaco e Luigi Infantino. Le signore-bene hanno indossato i vestiti eleganti, forse un po’ fuori moda, forse odorosi di naftalina. Ma che emozionante sensazione quel ritrovarsi felice, quel ritorno alle immagini di un tempo, che si credeva perduto ed invece rivive, almeno per una serata!