Date a Cesare quel che è di Cesare
Come disse qualcuno, tutti hanno il loro Cesare. Questa apparente stravaganza ha costruito, nei secoli, la fortuna di uno dei massimi protagonisti della storia e lo rende, ancora oggi attuale, aperto alle più contrastanti interpretazioni. Gaio Giulio Cesare è stato prismatico, ha rivelato aspetti molteplici, diversi tra loro e continua ad esserlo. Con lui si ha la sensazione che nell’enigma risieda questa immortalità. La sua esistenza attrae col miraggio di scoprirne il segreto, offrendo un risultato più esaltante, quello di vedere emergere dalle pagine del passato quel Cesare, così come percepito da ciascuno di noi. Con lui si comprende perché la storia venga continuamente riscritta e riletta.
“Cesare, chi sei?”, chiedeva Cicerone, dubbioso intellettuale, conscio che le generazioni future avrebbero risposto, a quella domanda, con più consapevolezza dei contemporanei, una volta esauriti sia l’odio e sia l’amore che un tale personaggio, così glorioso e discusso, suscitava. Ma Cicerone si sbagliava. Il giudizio su Cesare era destinato ad andare oltre i comuni sentimenti. Uomini d’azione, pensatori, storici, letterati e poeti non hanno mai smesso di porsi la stessa domanda.
E’ difficile dire se egli sia stato prima di tutto un conquistatore o il fondatore di un nuovo sistema, o entrambe le cose. Aveva in mente, fin da subito, l’idea di abbattere una repubblica già cadente o fu la naturale conseguenza delle cose a suggerirgli la creazione di una monarchia assoluta e del tutto personale? La storia ci ha mostrato le innumerevoli difficoltà di un concreto giudizio a questi interrogativi che, peraltro, scompaiono di fronte al quesito dei quesiti: “Giulio Cesare fu, per Roma, una fortuna o una disgrazia?”. In questo caso, la risposta non può che scaturire da un’altra domanda: “Che sarebbe rimasto di Roma senza Giulio Cesare?”.
Un grande filosofo disse che “quando rivolgiamo lo sguardo al passato, non vediamo altro che rovine”. Può essere vero, ma è dalle rovine che emerge viva e gagliarda la figura di Cesare, in tutta la sua complessità. Il suo progetto politico è andato lontano, così come da lontano arrivavano le sue idee. Forse non sapeva come e quando avrebbe potuto attuarle, ma certamente le aveva ben chiare nella mente, sorrette da un’irrefrenabile sete di gloria e da una rabbiosa ambizione. Quelle convinzioni scaturivano dalle riforme agrarie e sociali dei Gracchi ed erano passate attraverso le realizzazioni di Mario, suo zio, e di Cinna, suo suocero. Cesare era un patrizio fattosi democratico, che si batteva per il popolo cercandone l’appoggio. In nome del popolo, senza disdegnare il ricorso alle più plateali forme di demagogia, doveva assolutamente sconfiggere l’egoistica e rapace oligarchia senatoriale, favorendo, più o meno segretamente, gli sconvolgimenti di Catilina e la ferocia di ribaldi come Clodio “il bello”, suo alleato ed insidiatore della moglie Pompea.
Quello di Cesare fu un lungo, tortuoso e contrastato disegno, intercalato da innumerevoli complotti falliti che inevitabilmente portarono, alle idi di marzo del 44 a.C. (lo scorso 15 marzo sono trascorsi 2064 anni), il pugnale di un controrivoluzionario Bruto a colpire nel segno per ventitré volte.
Era un uomo tenace ed ostinato, che non si lasciava scoraggiare, impassibile, impaziente e, al tempo stesso, fantasioso ed appassionato. Queste qualità, le poneva al servizio dei suoi obbiettivi, una volta individuati. Rivelò doti di uomo politico, capace di destreggiarsi tra le rivalità, le “factiones” del Foro, del senato e delle Assemblee popolari.
In gioventù, aveva militato e vinto in Asia ed in Spagna, meritando la tanto ambita “corona civica”, adornata da fronde di quercia. Solo all’età di quarantadue anni si manifestò in lui la figura del grande generale, del conquistatore che sottomise la Gallia e raggiunse la sconosciuta Britannia, attraverso una guerra novennale. Furono, o non furono, nove anni di preparazione al colpo di Stato? Prevedeva Cesare di dover oltrepassare il Rubicone per impossessarsi del potere, rincorrendo Pompeo in fuga ed i superstiti difensori dell’oligarchia? Forse no. In realtà, sulla scena pubblica, dominava ancora, nei quattro anni e mezzo di guerra civile, la figura del condottiero vittorioso che impediva all’uomo di governo di esprimersi compiutamente. L’Europa, l’Asia, l’Africa lo tenevano lontano dall’Urbe. I suoi nemici non vincevano, ma lo costringevano ad una vita di soldato errante. Le vittorie definitive di Farsalo e di Munda arrivarono un po’ troppo tardi.
Cesare tornò a Roma a cinquantacinque anni compiuti e dovette stringere i tempi di realizzazione di quella sua creatura politica che, per quanto affrettata e rimasta incompiuta, ha consegnato il suo nome ai posteri, ogni qual volta si voglia individuare la concentrazione di tutti i poteri dello Stato nelle mani di un’unica persona. Nacque una forma di regime personale, sostenuta dalle armi e dal popolo che, solo agli inizi del XIX Secolo, nel pieno della bufera napoleonica, fu chiamata “cesarismo”.
Strano destino per un grande innovatore, realizzatore della dittatura a vita, unificatore del mondo, tanto che qualcuno ha visto in lui, sul terreno degli ordinamenti civili, il precursore del cristianesimo. Non meno singolare la sorte della monarchia di cui egli poté soltanto gettare il seme, una soluzione istituzionale che si chiamerà impero e che sopravviverà cinque secoli. Nemmeno il suo immediato successore, Ottaviano, poté fregiarsi con facilità del titolo imperiale e chiamarsi Augusto, tanto radicati erano a Roma i sentimenti repubblicani.
Cesare non ebbe, perciò, di fronte solo dei nemici dichiarati, che non volevano perdere i loro privilegi di classe, ma anche la naturale resistenza di una lunga tradizione culturale e politica. Sono sempre gli stessi, quegli ostacoli che deve superare un uomo forte che voglia prendere in pugno un paese in crisi. Sull’appellativo di “uomo forte” – se così può definirsi il despota – è sempre stata profonda la contesa tra storici e filosofi.
Ogni sua mossa non poté non oscillare tra quei sentimenti contrastanti, che convivono sempre nei grandi giocatori, il calcolo e l’azzardo. Così come ovviamente ondeggiarono, tra l’esaltazione e la denigrazione, i giudizi su un uomo che si proclamava discendente di Venere e che in battaglia, per non subire l’onta di una sconfitta, aveva perfino cercato la morte. Entusiasmanti furono le sue vittorie, non meno avvilenti le sconfitte. Fu necessario il trionfo di Alesia, in Gallia transalpina, per riscattare lo smacco di Gergovia e quello di Farsalo, per annullare Durazzo.
Affascina il suo genio, attraggono le sue conquiste, gli scritti, l’eleganza, la temerarietà, la clemenza. E c’è chi vede in lui ben altro: l’adultero, l’omosessuale, l’epilettico, il tiranno che uccide le libertà repubblicane, il generale che non perdona l’avversario sconfitto, come dimostra la sorte che riservò a Vercingetorige, al quale i francesi elevarono, circa due secoli fa, nella piana di Alesia, un grande monumento. E’ vero, altresì, che le manifestazioni di clemenza verso i nemici sono sempre state considerate uno strumento, falso e subdolo, per acquistare popolarità.
Difficile da interpretare la sua strana condotta, nell’ultimo mese di vita. Con accanimento, aveva perseguito l’obiettivo della conquista del potere ma, ottenuta la dittatura perpetua, non fece nulla per difenderla e si lasciò trasportare dagli eventi, privo di ogni volontà. Disse in quei giorni: “La bussola va, impazzita, all’avventura, ed il calcolo dei dadi più non mi torna”. Appariva dominato da una sorta di fatalismo. Non reagiva alle voci, sempre più frequenti, di un’imminente congiura, la più pericolosa che mai gli avessero scatenato contro. Anzi, licenziò le guardie del corpo. Si muoveva solo, senza più una scorta armata. Confidava, forse, negli astri che lo avevano sempre protetto, oppure era caduto vittima di un improvviso “taedium vitae”. Inspiegabile comportamento per chi si accingeva a partire, una volta incoronato re, alla volta di una nuova guerra che, sotto la veste dell’umiliazione dei popoli d’Oriente, era diretta a fondare una monarchia universale, a imitazione di quella di Alessandro Magno.
I contemporanei non lo hanno amato, i posteri raramente lo hanno capito, ma nessuno ha mai potuto negare a Gaio Giulio Cesare il primato di essere il più affascinante genio dell’azione.
In Via dei Fori Imperiali, a Roma, una sua statua bronzea suscita ancora oggi curiosità ed interesse. Molti depongono ai suoi piedi un fiore. Che cosa vedono in lui? Forse il grande condottiero, forse un uomo politico audace e spregiudicato. O sono soltanto affascinati dalla sua inestinguibile leggenda?
Non avrebbe senso dire: “Ai posteri l’ardua sentenza!”.