Le Russe borghesi (2a parte)
“Morta” la moglie, il marito era libero di risposarsi, ma questa libertà era vincolata da precise norme. La Chiesa Ortodossa permetteva ad un uomo di rimanere vedovo o divorziare per non più di due volte, così che la terza sposa diventasse anche l’ultima. Perciò l’uomo che avesse esagerato nel maltrattare le sue prime due compagne, doveva stare attento con la terza. Se anche fosse morta o fuggita di casa, non avrebbe più potuto convolare a nozze.
L’isolamento delle donne e la disistima della loro compagnia ebbe un effetto sinistro sui Russi del XVII Secolo. L’ambiente familiare era soffocante, quello intellettuale privo di vita. Prevalevano le qualità più volgari e gli uomini, privati del rapporto sociale con il “gentil sesso”, non trovavano niente di meglio da fare che dedicarsi all’alcool. Vi erano, comunque, delle eccezioni: in qualche famiglia, a volte, femmine intelligenti sapevano gestire, anche se dietro le quinte, ruoli importanti nell’ambito domestico. Ne esistevano anche di forti, che dominavano mariti deboli. Potrà sembrare ironico, ma più basso era il rango in cui si trovava la donna, maggiori erano le sue possibilità di eguaglianza con l’uomo. Nelle classi sociali meno abbienti, dove la vita era una continua lotta per la più elementare sussistenza, non potevano essere messe da parte o trattate come oggetti inutili; c’era bisogno anche delle loro capacità fisiche ed intellettuali, per poter sopravvivere. Erano pur sempre considerate inferiori, ma vivevano la vita di tutti i giorni in continua collaborazione con gli uomini.
Alla sommità della scala sociale femminile, c’era la Zarina, la moglie dello Zar. La sua vita, anche se agiatissima, non era, però, più indipendente. Si dedicava totalmente alla famiglia, alla preghiera ed alle opere di carità. A palazzo, dirigeva il “menage” familiare tenendo particolarmente d’occhio il guardaroba personale, nonché quello dello sposo e dei figli. Alcuni dei suoi compiti specifici erano elargire cospicue elemosine ai poveri, sovrintendere ai matrimoni delle numerose fanciulle del suo seguito ed assicurare loro una dote. La Zarina trascorreva gran parte del proprio tempo libero in chiesa poiché, nonostante i numerosi doveri, le restavano molte ore da dover occupare. Giocava a carte, si faceva raccontare storie, seguiva i canti e le danze delle cameriere, rideva agli scherzi ed ai lazzi dei “nani di corte”, che indossavano costumi di un rosa acceso, calzando stivali di cuoio rosso e berretti di panno verde. A fine giornata, dopo i vespri e quando lo Zar aveva concluso le proprie attività, veniva invitata, talvolta, a fargli visita.
Se il matrimonio fosse una meta auspicabile per la donna russa del XVII Secolo, è cosa del tutto discutibile. Esistevano, altresì, nella Russia dell’epoca alcune di loro che, anche se avessero voluto, non avrebbero mai potuto fare quell’esperienza, a causa della loro condizione, che le poneva all’apice della scala sociale: erano le sorelle dello Zar. A queste principesse, chiamate “zarevne”, non era consentito innamorarsi, sposarsi ed avere figli. Rimaneva loro, se non altro, la magra consolazione che non sarebbero mai state picchiate, violentate e non avrebbero mai dovuto subire l’affronto del divorzio. L’ostacolo per una vita normale era, appunto, il rango. Non potevano unirsi in matrimonio con Russi di ceto inferiore; e la religione impediva loro di sposarsi con principi stranieri, poiché considerati, per antonomasia, infedeli ed eretici. Perciò, fin dalla nascita, erano condannate a vivere nell’angusta malinconia del “terem”, un appartamento situato, in genere, all’ultimo piano del palazzo e riservato esclusivamente e tassativamente alle donne. Qui trascorrevano la propria vita pregando, ricamando, chiacchierando ed annoiandosi. Non avrebbero mai conosciuto altra realtà al di fuori del “terem”, senza che il genere umano si accorgesse di loro, se non quando nascevano e morivano. Eccetto i più stretti congiunti, il Patriarca e pochissimi preti, nessun uomo poteva posare lo sguardo su quelle regali recluse.
Quando una zarevna si ammalava, venivano chiuse le imposte e tirate le tende per oscurare la stanza, nel tentativo di nascondere la paziente; se si fosse reso necessario tastarle il polso o esaminarne il corpo, ciò avveniva al di sopra di un lenzuolo di garza, cosicché nessuna mano di uomo, ancorché di “cerusico”, potesse toccarne le carni nude e, tanto meno, osservarle. Le zarevne si recavano in chiesa, di buon mattino o a tarda sera, attraversando frettolosamente corridoi scuri e passaggi segreti. Nelle cattedrali o nelle cappelle, se ne stavano nella parte più buia del coro, protette da tende di seta rossa. Quando seguivano a piedi una processione solenne, lo facevano dietro i pregiatissimi teli di seta di una tenda mobile, chiusa e montata su di un’impalcatura circolare. Tutte le volte che uscivano dal Cremlino, dirette, in pellegrinaggio o ad un convento, salivano sopra carri, o slitte, di un rosso vivo, costruiti appositamente e chiusi, anche questi come celle mobili, circondati da servi ed uomini a cavallo, che sgombravano le strade.
In quel buio mondo, rimasto medievale, lo sfarzo, la ricchezza e la regalità non erano in grado, per loro, di modificare ed addolcire una vita di non voluta, ma rassegnata, clausura che, per molti versi, era sicuramente peggiore di quella, già tragicamente inutile, vissuta dalla donne comuni.