Sul tetto del mondo
Inarrestabile è stata, dall’inizio di quest’anno fino al fermo che la Covid-19 ha prodotto, la serie delle morti registrate nella stagione alpinistica sulle pendici dell’Everest, la montagna più alta del nostro pianeta, con i suoi 8.848 metri. L’ultima, l’undicesima, è avvenuta proprio nello scorso mese di febbraio in quei giorni in cui, in tutto il mondo, sono state diffuse le fotografie di decine di scalatori costretti ad attendere in fila, a oltre ottomila metri di quota, il loro turno per passare attraverso una strettoia che conduce alla sommità, così come le polemiche sullo sfruttamento della regione montuosa, da parte delle autorità nepalesi.
L’Everest, il cui nome venne dato in onore di Sir George Everest (1790-1866), geografo inglese e Topografo Generale dell’India dal 1830 al 1843, è chiamato, in lingua locale, “ Chomolungma”, che significa “Dea madre dell’universo”. Questa montagna della catena himalayana, sa ancora oggi di leggenda e rappresenta il simbolo più tenace della sfida tra l’uomo e la natura.
Il 29 maggio del 1953, il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa nepalese Tenzing Norkay raggiunsero, per la prima volta, la sua vetta, situata al confine tra Cina e Nepal. La spedizione fu organizzata e finanziata dal “Joint Himalayan Committee” britannico e fu molto importante, soprattutto, per il prestigio che il suo successo garantì al governo di Londra. Era guidata dal Colonnello John Hunt, uno scalatore che a quel tempo lavorava presso il Quartier Generale della NATO, a Bruxelles, conosciuto col nome di SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe).
“L’approccio all’Everest ormai è terrificante”, aveva dichiarato Hillary in un’intervista al quotidiano neozelandese “Otago Daily Newspaper”. “L’unico interesse è arrivare in cima e c’è chi è capace di lasciare sulla roccia un compagno in difficoltà, senza curarsi di soccorrerlo”.
La loro missione fu la prima a riuscire nell’impresa: a farne parte, 15 esperti alpinisti, partiti da Katmandu, in Nepal, dove, ai primi di marzo, affluirono venti sherpa, scelti e guidati da Tenzing Norgay, da tutti considerato la migliore guida.
Come raccontarono poi alcuni membri del gruppo, la scalata fu difficile e molto faticosa. Furono montati diversi campi base, salendo troppo lentamente tra l’uno e l’altro. Per raggiungere la vetta, in realtà era stata scelta la coppia formata da Tom Bourdillon e Charles Evans, che però il 26 maggio, arrivata a soli 100 metri dall’obiettivo, fu costretta a tornare indietro per mancanza di ossigeno. Imperterriti, Hillary e Norgay, il giorno seguente, decisero di fare un altro tentativo, salendo dal Colle Sud e riuscendo a raggiungere la cima, alle ore 11.30, del 29 maggio. Rimasero sul “tetto del mondo” per circa 15 minuti, scattando fotografie, seppellendo biscotti sotto la neve, in segno di gratitudine alle divinità che li avevano protetti, piantando una piccola croce e facendo sventolare le bandiere di Gran Bretagna, India e Nepal, ridisegnando così il corso della storia, con immagini che ricordano, in parte, la prima volta dell’uomo sulla Luna.
Edmund Hillary morì ad Auckland, in Nuova Zelanda, dove era nato, l’11 gennaio 2008, all’età di 88 anni; Tenzing Norkay, a Darjeeling, in India, nel 1986, a soli 72 anni.
Quella spedizione fu l’ultima, per anni, concessa dal Nepal alla Gran Bretagna, dopo che nel 1952 ne furono autorizzate due svizzere.
Prima della storica impresa, innumerevoli erano stati i tentativi di scalare l’Everest, ma nessuno di questi ebbe successo ed in tanti persero la vita. Da allora, tantissime le cordate riuscite, circa 3.500; 234 solo nell’ultimo anno.
Dal 1953 sono stati toccati, come ebbe a scrivere il “Telegraph”, diversi record. L’italiano Reinhold Messner fu il primo a scalare la montagna in solitaria e senza ossigeno; il 7 ottobre del 2000 il trentottenne sloveno Davorin Karnicar ha sciato per un dislivello di 3.657 metri, scendendo lungo il costone, completamente ghiacciato, della parete sud; l’ottantenne giapponese Yuichiro Miura detiene il record di essere la persona più anziana, di sempre, ad arrivare in vetta, mentre quello della più giovane appartiene al quindicenne statunitense Jordan Romero, ottenuto nel maggio 2010.
Nonostante la straordinaria evoluzione della tecnologia e delle conoscenze in materia di alpinismo, i pericoli per chi aggredisce l’Everest sono rimasti, comunque, molto elevati. I rocciatori hanno bisogno di un’enorme quantità di attrezzi che, abitualmente, finiscono per essere abbandonati lungo il percorso e sulla vetta. Così, le due vie standard autorizzate, quella della cresta nord-est e quella della cresta sud-est, sono diventate molto frequentate, sporche e colme di spazzatura.
Ebbe a dire Reinhold Messner: “Bandiere sulle montagne non ne porto. Sulle cime io non lascio mai niente, se non, per brevissimo tempo, le mie orme che il vento ben presto cancella”.