Aviazione, aiuto! (2a ed ultima parte)

Nella primavera del 1942, il nuovo Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, Generale Rino Corso Fougier, facendo brutalmente il punto della situazione della sua Forza Armata a Mussolini, evidenziò che dall’inizio della guerra erano andati perduti 2660 apparecchi (e 5000 uomini) e ne restavano 1800, la maggior parte dei quali in cattivo stato. A ciò si doveva aggiungere la carenza di carburante e, di conseguenza, la drastica riduzione delle scuole di volo. Equivaleva, quindi, a non avere più, entro breve termine, né aerei né piloti. La Germania, dal canto suo, lesinava gli aiuti in materie prime, convinta ormai che gli italiani li avrebbero inutilmente sperperati. Infatti, quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, nel luglio del ’43, non si poterono opporre loro più di 70 caccia ancora efficienti.
Nonostante ciò, con i loro “cassoni”, senza fare mai troppe domande, i piloti italiani, male impiegati ed ancor meno sostenuti, compirono un folto numero di imprese che ebbero del prodigioso, anche se in esse prevalse, per necessità, il carattere dell’iniziativa occasionale ed individuale. Tra queste gesta, accantonando le più celebri, le più conosciute, le più descritte e riferite, è bello citarne due, particolarmente significative, che rappresentano maggiormente lo spirito che animò i nostri piloti, non solo quelli assurti al rango di eroi, ma anche quelli impegnati in un lavoro oscuro, spesso quasi impossibile, alle prese con difficoltà tecniche e materiali inimmaginabili, gettati allo sbaraglio in combattimenti ardui, talora senza speranza. Si trattò di due fatti in cui l’audacia nasceva dall’ingegno, dalla fantasia, dalla generosità e dalla profonda umanità, che caratterizzò il combattente italiano di ogni Forza Armata. Si trattò di due azioni nelle quali l’eroismo non fu aggressività, né fanatismo, né tanto meno ferocia. Forse, proprio per questo, riescono, ancora oggi, a far commuovere.
Sono lezioni di coraggio, di partecipazione, di umana responsabilità che, in parte, distraggono dagli orrori della guerra, di ogni guerra.
Una, racconta la storia del Sergente Pilota Luigi Valotti e del suo primo ed ultimo volo. Era entrato in Aeronautica pieno di “sacro fuoco”; si era subito distinto, alla scuola di volo, per un’incontenibile smania di fare, anzi di strafare, contrastando, a volte, il regolamento ed i superiori che, in più di una circostanza, lo avevano giudicato una testa matta, ritenendo la sua sfrontata gioia di volare in disaccordo con le missioni belliche, ben più prosaiche ed assai meno estetiche, e soprattutto ben poco divertenti, alle quali sarebbe stato destinato. Aveva imparato presto e bene, mettendo in luce un talento eccezionale per il volo acrobatico. Lì, la sua fantasia si sbizzarriva. In tempi di pace, Valotti avrebbe certamente finito per girare il mondo con una delle nostre pattuglie acrobatiche. Ma c’era la guerra e l’acrobazia, come arte pura, contava davvero poco. Raccogliendo, comunque, l’unanime ammirazione dei compagni e l’inevitabile stima dei comandanti, seguì ogni specifica specializzazione sui diversi tipi di velivoli in dotazione e, alla fine, mordendo il freno, fu finalmente pronto ad agire.
Il 27 settembre 1941, arrivò per lui il grande giorno. Aggregato al XXIV° Gruppo Caccia, volando su di un biplano Fiat CR42, doveva scortare una formazione di aerosiluranti diretti all’intercettazione di un convoglio britannico, diretto a Malta, protetto da una nutritissima formazione navale. Durante il volo, gli tornarono in mente i racconti di battaglie aeree sentiti alla scuola e le raccomandazioni degli istruttori e degli anziani. La vista improvvisa del poderoso schieramento delle navi nemiche, piccole piccole in fondo all’orizzonte, lo risvegliò bruscamente dalle sue riflessioni, anche perché dai fianchi delle stesse salivano, verso il cielo, miriadi di fiocchi bianchi, fitti fitti, come un fuoco d’artificio: era, invece, il fuoco di sbarramento. E pensò a come sarebbe stato possibile superare quella cortina di piombo e fumo. Sembrava, ad occhio, un’impresa impossibile. Tutto ciò mentre si stava avvicinando sempre di più. Faceva un caldo infernale, frutto delle innumerevoli esplosioni che lo stavano accerchiando. Il convoglio, là sotto, sembrava impazzito. Non era più tempo di riflessioni. Guardò in alto e, tra quei traccianti bianchi, vide che i suoi compagni erano già impegnati in duelli rapidissimi, fulminei. Valotti, inizialmente attonito, bruciava dalla voglia di fare qualcosa, di aiutare gli altri che, ad uno ad uno venivano colpiti, inabissandosi in mare.
Ebbe un impulso improvviso, più che una decisione; forse una reazione al sentimento di rabbia che lo invadeva. Si precipitò verso il fuoco di sbarramento. In mezzo a quell’inferno di colpi, si mise a fare acrobazie, la sua specialità. Era uno spettacolo incredibile. Il suo CR42 andava su e giù, virava, picchiava, ritornava, di testa, di pancia, di ala, bucava il cielo. Tutti gli sguardi del nemico erano su di lui, tutto il fuoco nemico si concentrò su di lui. Sicuramente era riuscito, con la creazione di quel diversivo, nell’intento di distrarre, per un bel po’, il nemico e consentire agli aerosiluranti di passare. Era una specie di gara; ma quanto poteva durare? Valotti sembrava imprendibile, non mollava, si faceva sempre più audace, mentre la fantasia non si stancava di suggerirgli figure nuove, dimenticando forse dove si trovava. Sei minuti durò quella sarabanda, sei lunghi, interminabili minuti; poi la fine. Quell’impresa colpì profondamente gli inglesi. Ricevette dai loro commenti lusinghieri apprezzamenti, segnali di riverente ammirazione. Si seppe che Valotti non sparò un solo colpo. Forse non gli era stato possibile. Forse se ne era completamente dimenticato.
L’altra, ricorda il modenese Fulvio Setti, Medaglia d’Oro al Valor Militare (una volta tanto non alla memoria) che non fu, certamente, un “asso” dell’aviazione. Era solo un Tenente Pilota di complemento e non aveva avuto, alle spalle, straordinarie esperienze di combattimenti.
Si era alle ultime battute dalla guerra in Africa. Il 5 maggio 1943, venne designato al comando di sei trimotori Savoia-Marchetti S.M.82, per trasferire al più presto, a Tunisi, uomini e materiali, dal momento che il trasporto via mare, lungo il Canale di Sicilia era diventato impossibile, a causa delle sempre vincenti incursioni inglesi.
La missione, iniziata sotto la mala sorte, sembrava avviarsi al peggio. Due apparecchi del suo convoglio, in avaria, furono costretti a rientrare, quasi subito, alla base. I quattro aerei rimasti, carichi di Bersaglieri e di armi, proseguirono il loro viaggio verso Tunisi. Dopo poco, furono però intercettati da caccia nemici, a loro volta contrastati dai velivoli di scorta italiani. Tre S82 vennero abbattuti. A quel punto il Tenente Setti, ancora in volo, crivellato di colpi, con un motore che non rispondeva più ai comandi, combattuto con se stesso sul da farsi, decise di atterrare, non senza fatica, sulla spiaggia tunisina. Una volta a terra, corse ad avvertire per il soccorso dei suoi uomini caduti in mare. Fece immediatamente spianare la spiaggia, per poter riprendere il volo, senza rischiare di capottare su qualche duna. Si diede un gran da fare, cercando, chiedendo ed insistendo, per racimolare, uno per uno, i pezzi di ricambio per il suo aereo. Durante quella ricerca, venne a sapere che all’aeroporto di Tunisi erano stati raccolti i superstiti di due S82 della sua squadriglia. Riuscì, incredibilmente, a reperire un autocarro con autista e con quello raggiunse l’aeroporto. Lì trovò i suoi due equipaggi, che avrebbe imbarcato su di un altro S82, in partenza nella notte per l’Italia, l’ultimo velivolo italiano in Tunisia. Certo sarebbero stati un po’ stretti, ma in salvo. Infatti così dispose per i suoi uomini, ma lui, e non volle sentire ragione, lui non avrebbe mai lasciato il suo apparecchio ed il personale di bordo (tre, rimasti a presidiarlo) su di una spiaggia della Tunisia. Ormai gli angloamericani erano dappertutto. Con l’autocarro, sarebbe sicuramente stato fermato e fatto prigioniero. Che fare allora? Mentre si arrovellava per trovare una soluzione, lo sguardo gli cadde su una vecchia carcassa di S81, lì abbandonato ed un’idea assurda gli attraversò il cervello. Chissà, magari il motore poteva ancora funzionare! Perchè non provare? Con il Maresciallo Binotto, che lo aveva accompagnato, e con l’autista del camion, utilizzando due fusti vuoti di benzina come sedili, dopo ripetuti tentativi, riuscì ad avviare quel motore addormentato che, per miracolo, starnazzando, fece alzare quell’ammasso di ferraglia, ridotta ad un colabrodo e con un alettone danneggiato. Percorse sessanta chilometri, tra un sobbalzo e l’altro, fino alla spiaggia dove Setti rivide, dall’alto, con eccitante gioia, la figura del suo aereo ed i suoi uomini che, speranzosi, lo stavano aspettando.
Sistemato decentemente il suo apparecchio, decollò alla volta di Sidi Kedonia, così come gli avevano ordinato a Tunisi, vista la sua ostinazione di voler tornare indietro alla spiaggia. A Sidi, dopo il rifornimento di carburante, avrebbe dovuto imbarcare quanti più uomini possibile, compresi due Generali dell’Esercito e riportarli in Patria. Lì giunto, apprese, suo malgrado, che il decollo per l’Italia sarebbe dovuto avvenire di notte. Lui non aveva mai pilotato di notte e non sembravano quelle la circostanze migliori per cominciare. D’altronde, non c’era altra scelta. Non disse nulla della sua inesperienza, per non impressionare i passeggeri. Non appena fu completamente buio e si accesero le luci del sentiero luminoso della pista, due caccia nemici apparvero d’incanto ed incominciarono a sparare all’impazzata. Bisognava spegnere precipitosamente l’illuminazione e decollare, alla cieca il più velocemente possibile. Fu impeccabile, nello staccarsi da terra , ma subito un caccia inglese gli fu sulla testa. Nonostante il carico umano di bordo, pur non essendo un virtuoso dei comandi, con un ingegno da vendere, intuizione, prontezza, energia e tanta fiducia nella buona sorte, riuscì a disimpegnarsi da un nemico tanto più veloce di lui. Andò bene. Il viaggio di ritorno non ebbe più intoppi e Setti riuscì a riportare a casa l’aereo, il suo equipaggio, tanti soldati e, naturalmente, i due generali, come in una bella fiaba.
A chi gli chiese, in seguito, come avesse fatto ad uscire indenne da quella situazione, il Tenente Fulvio Setti rispose con una parola soltanto: “Fortuna!”.
Ma chi lo propose per la Medaglia d’Oro al Valor Militare e gliela appuntò sul petto, non fu evidentemente dello stesso avviso.

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