Sacharov sul Volga, Solženicyn nel Vermont (1a parte)
Che cos’era quella città della provincia russa, “chiusa agli stranieri”, dove nell’alba fredda degli anni ’80 confinarono Andrej Dmitrievič Sacharov (fisico sovietico, famoso per aver messo a punto la bomba all’idrogeno, Premio Nobel per la Pace nel ’75, scomparso nel 1989), affinché la sua voce si perdesse nelle profondità della steppa? A quattrocento chilometri da Mosca, situata sulla confluenza tra il Volga e l’Oka, si chiamava un tempo Nižnij Novgorod. Dal 1932 assunse il nome di Gor’kij (dall’omonimo scrittore e drammaturgo, nativo di quei luoghi, morto nel 1936). Nello stesso anno, per opera dei tecnici USA, prestati a Stalin da Henry Ford I, venne lì fondata un’industria di automobili americane, che in seguito produsse le “Volga”, le “Zim”, le “Pobeda” e le sontuose “Čajka” ministeriali. Fu sempre chiusa agli stranieri, come molte altre città dell’URSS, anche quando raggiunse, a fine anni ’40, un milione di abitanti. La si poteva vedere, solo di sfuggita, percorrendo in battello il canale Moscova-Volga, fino a Stalingrado (oggi Volgograd), attraverso il mare artificiale di Rybinsk. Era permesso scendere all’approdo, ma senza superare la cinta del porto fluviale. Nel paesaggio della “plumbea Russia contadina” di Maksim Gor’kij, si potevano notare le flottiglie da pesca, immerse nella foschia dell’alba, gli allevamenti di oche, le ciminiere, le isbe (tipiche abitazioni rurali) di legno, i quartieri squadrati a blocchi cementizi (sullo stampo della periferia moscovita), un lungofiume alberato e popolato da busti in gesso di Lenin, Stalin e di discoboli. Con la piena luce del sole, appariva, sul profilo della collina, un “bianco cremlino”, che aveva difeso i tesori dei mercanti, quando il Volga segnava il confine tra l’Europa e l’Asia, mentre le carovane provenienti dall’India e dalla Cina, si fermavano con le zattere a Nižnij Novgorod. Su quel passato, è rimasto memorabile un film di Mark Donskoj (regista ucraino, morto a Mosca nel 1981) sull’infanzia di Gor’kij (pseudonimo di Alexsej Maksimovič Peškov), che rievoca lo scenario della leggendaria “jarmarka”, la più celebre fiera eurasiatica, affollata di mercanti russi e ricconi d’Oriente, tartari, calmucchi, ciuvasci e turchi, tutti battellieri, accattoni, avventurieri, saltimbanchi e predicatori. Una particolare nota etnico-culturale: nella gran commistione delle razze, sedimentò in quella città una peculiare pronuncia, detta “òkan’e” (la “o” sempre chiusa nella prima sillaba). Nell’epoca staliniana, il famigerato Andrej Aleksandrovič Ždanov, locale Segretario del Partito, prima di diventare il braccio destro di Stalin, tentò nella sua ossessione disciplinare, di sopprimere quella trasgressione radicata. Anche se Gor’kij, non correggibile, continuò a parlare con l’”òkan’e”, fino alla morte.
Ora, in quel contesto, soggiornò Sacharov, sulla base di un decreto amministrativo del 22 gennaio 1980 che, secondo l’agenzia sovietica “TASS”, gli impose un “semplice allontanamento da Mosca”, con l’obbligo solo di vivere “in un’altra bella città”. Che si trattasse di “una bella città”, fu forse un’asserzione attendibile della TASS, ma nessuno straniero poté mai confermarlo o negarlo. Si può concordare, invece, che il destino del dissidente Sacharov non fu quello dei deportati a Magádan, nella remota Kolymà. Gli oligarchi del “politbjuro” brezneviano, i Suslov, Andropov, Kirilenko e Ustinov, non furono misurati nell’usare i mezzi di coercizione.
Non si è mai saputo per quali ragioni, fra tante belle città, proprio quella fu scelta quale domicilio coatto del fisico nucleare “calunniatore del popolo sovietico”. Forse perché, una volta stabilito che niente poteva essere più benefico di una “città chiusa” per una “mente aperta”, l’infallibile istinto orwelliano dell’amministrazione avrà considerato che la parola russa “gor’kij” significava anche “amaro”, non senza ricordare che lo stesso drammaturgo cessò di vivere in circostanze misteriose (si ricordano sette versioni ufficiali sulla sua morte). O forse così fu deciso affinché, riflettendo in una residenza obbligata, l’occidentalista (zapadnik) Sacharov, potesse prendere atto finalmente che non c’era una logica interdipendenza tra l’apertura delle frontiere all’ambita tecnologia occidentale e l’attenuazione dei rigori dispotici interni. Oppure, ultima ipotesi, la scelta si spiega ricordando che Gor’kij fu la circoscrizione che Jurij Andropov, Capo della Polizia Politica o KGB, usò per candidarsi alle elezioni per il Soviet. Ben inteso, elezioni incontrastate, con un solo candidato. Lui. Non sono possibili altre congetture più o meno esplicative.
Rimase sempre oscura, fino a sfidare il senso comune, la stessa base legale del provvedimento. Se Andrej Sacharov violò la legge, perché non ci fu mai un processo? E se non la violò, perché il domicilio coatto? Per sette anni reclamò, presso la “Prokuratura”, un pubblico procedimento, che l’apparato giudiziario non concesse, malgrado i numerosi addebiti, fino all’intimidatoria ipotesi di un’imputazione per alto tradimento. Quali erano questi addebiti? Certo, negli appelli alla Croce Rossa Internazionale, Sacharov rivelò la varietà di droghe iniettate sui reclusi politici, nelle carceri o nei manicomi speciali, fino a trasformarli in “vegetali umani”. E durante la Conferenza di Helsinki (1975) e dopo, avvertì che le rivendicazioni dei diritti primari all’informazione, al dissenso, alla pubblicità dei processi giudiziari o al passaporto, non erano questioni interne dell’URSS, ma garanzie della stessa coesistenza tra Stati, contro le possibili e micidiali sorprese del regime autoritario. Ancora. Dinnanzi al “Trade Reform Act” del Senato di Washington, suggerì che la concessione all’URSS di un vantaggio economico come nazione più favorita, doveva essere, almeno, subordinata al riconoscimento del diritto di emigrazione agli ebrei. Osò definire i campi di lavoro forzato come “piccoli recinti dentro il grande recinto”. Ogni martedì, alle riunioni dell’Accademia delle Scienze, usava illustrare ai colleghi le cause dell’inefficienza industriale e della cronica stagnazione agricola. Segnalava, da un decennio, l’eccesso crescente della spesa militare in rapporto al prodotto nazionale, esponendosi all’accusa di sistematica sedizione con pretesa di immunità o “personale extraterritorialità”. Infine denunciò la guerra in Afghanistan, sulla soglia dell’infiammabile golfo petrolifico, come l’ultima di una lunga serie di avventure internazionali. La più rischiosa, perché aveva sfidato insieme mondo islamico, Cina ed occidentali.
Tuttavia Sacharov non poteva essere processato ed imprigionato, come Orlov e Šaranskij, in un lager o in qualche cella della Taganka, né internato in un “manicomio politico”, né costretto a raggiungere gli esiliati della “Russia esterna”, senza essere prima bandito dall’Accademia della Scienze sovietica. Ma l’espulsione dal supremo consesso, che rappresentava per il Partito la “compagna scienza”, a norma di statuto, sarebbe stata lecita solo con la maggioranza dei due terzi ed a scrutinio secreto. Gli accademici sapevano bene che, una volta inficiato il principio dell’immunità, dopo aver estromesso il “padre della fusione nucleare” in Russia, tutti loro sarebbero stati più vulnerabili.
Certamente, nessuno fra loro avrebbe osato condividere, in pubblico, le opinioni del dissidente. Eppure, quando nel 1979, il Presidium Accademico tentò di porre la questione all’ordine del giorno, ammettendo che l’espulsione sarebbe stata senza precedenti e cercando di sondare le incognite del voto segreto, il vecchio Premio Nobel per la Fisica, Pëtr Kapica, si limitò ad obbiettare: “Esiste un precedente! L’espulsione di Einstein dall’Accademia delle Scienze, in Germania, nel 1933”. Quella breve replica fu sufficiente a chiudere la questione. Era dunque il boiardo (“bojar”, denominazione con cui venivano indicati i nobili russi fin dal medioevo) ribelle dell’età scientifica e tecnologica, protetto da numerosi altri boiardi contro lo Zar dell’età burocratica.
Per imporgli il silenzio, non rimaneva che decretarne l’isolamento dal mondo, in una città “particolare” della provincia russa. Oltre che dal sinedrio scientifico, Sacharov era protetto anche dall’opinione pubblica internazionale. Ebbe continui scambi epistolari con il Presidente americano Jimmy Carter, corrispondenza che però finì dopo la crisi dei rapporti USA – URSS: fu la prima vittima della seconda guerra fredda. Non più tecnologia, grano e crediti occidentali, non più quel simulacro di logica occidentale a Mosca.
Fu quello, senza ombra di dubbio, un lungo “esilio interno” per Sacharov, vissuto fra l’alloggio concessogli nell’”hôtel particulier” del KGB e le meditazioni sul lungofiume dei busti di gesso. Ma ritornò dopo un altro disgelo, avendo vinto le tendenze, contrarie anche alla simulazione, di un minimo di rispetto per i diritti umani e civili. Molti si domandarono, in patria, perchè Andrej Dmitrievič Sacharov non poté essere, già nel 1980, il capo di una quasi opposizione, legalmente riconosciuta o almeno sopportata. Dopo tutto era già passato più di un secolo da quando William Ewart Gladstone osservava, sul finire dell’ottocento, che “anche i selvaggi hanno un capo, ma solo l’Inghilterra ha un capo dell’opposizione!”.
Riabilitato da Michail Gorbačëv nel 1986, rientrò a Mosca e fu eletto deputato nel 1989. Morì nella capitale russa nel dicembre dello stesso anno.