Un taumaturgo al potere (seconda parte)
Lo Zar e la Zarina, dopo la presunta guarigione “miracolosa” del loro figliuolo, iniziarono a provare nei confronti di Grigorij Efimovič Rasputin un’amicizia sincera, mai riservata, prima, a chicchessia. Ricevette dal sovrano la dignità di “accensore delle lampade”, ossia guardiano delle immagini sacre.
L’uomo stimò da subito i benefici, di ogni genere, che quella familiarità avrebbe comportato. Per godere della vicinanza della corte, abbandonò il convento di Teofane e, nonostante le visite periodiche al suo villaggio natale, dove risiedevano la bionda e graziosa moglie Prascovia Feodorovna Dubrovin (sposata a trent’anni) e vari figli, divenne cittadino, lui “mugico” (contadino) appassionato della terra e degli animali. Avvertiva, pungente e necessaria, la presenza della Chiesa, della quale ne amava la liturgia e la pompa, così come le cattedrali delle città, dove Dio sfavillava nel suo splendore. La paura della morte e della salvezza eterna erano costantemente radicati nelle sue riflessioni. Eppure la sfrenatezza dei sensi era sempre più avida, benchè fosse continuamente flagellato dai rimorsi. Sognava di vivere in mortificazione, ma non sapeva come fare a domare i suoi ardori lussuriosi. Le bettole e le donne gli si imponevano sempre più, come sempre più assiduamente si imponeva lui alla famiglia imperiale.
Quando lo Zar Nicola II decise di partire per raggiungere il suo esercito al fronte, nell’ottobre del 1915, lasciando nelle mani della Zarina la reggenza dell’impero, Rasputin prese il sopravvento, diventando ogni giorno più invadente e potente. Il Primo Ministro Ivan Logginovič Goremykin una volta ebbe a dire: “L’attaccamento dell’Imperatrice al suo “mugico” è un caso clinico”. Infatti, con il passare del tempo, incominciò ad essere un personaggio molto, troppo scomodo e non solo per dignitari di corte.
Il sovrano, fortemente confuso ed irritato per le voci che attorno a lui si stavano gonfiando, si rivolse, un giorno, all’imperatrice: “Talvolta mi sembra non sia lo “staretz” (termine che in lingua russa si riferisce ai mistici cristiani ortodossi) ad aiutare me a governare, ma che sia io ad aiutare lui”. Anna Aleksandrovna Vyrulova, Dama di Corte, agli inizi di ottobre del 1916 ricevette una lettera dallo Zar, nella quale si sfogava con lei contro la pretesa di Rasputin di nominare direttamente i Ministri. Quest’ultimo, infatti, rimproverò, ad esempio, all’Imperatore di aver collocato al Ministero dell’Interno un “paralitico tubercolotico”, un certo Aleksandr Dmitrievič Protopopov.
Il taumaturgo sapeva bene che dell’appoggio fedele dell’Imperatrice non doveva dubitare, ma poteva essere sufficiente di fronte ad un pericolo che stava crescendo e si stava moltiplicando? Era la sicurezza in un successo definitivo e prossimo che, facendo velo alla sua proverbiale chiaroveggenza, gli impedì di scorgere, nel Principe Feliks Feliksovič Jusupov, l’omicida scelto dalla Nemesi e, questa volta, senza remissione?
Il giovane Principe non aveva potuto dimenticare un suo colloquio con lo staretz che, da subito, gli aveva suscitato un forte antipatia, governata con un’impudenza, allo stesso tempo, ossequiosa e diffidente, ma lo aveva, altresì, costretto a riconoscere il suo spaventoso potere magnetico. Scrisse nei suoi appunti (lett.): “Più lo guardavo, più ero colpito dall’orribile espressione dei suoi occhi. Ciò che li rendeva particolari è che erano piccoli, molto vicini uno all’altro, e talmente infossati nello orbite che da una certa distanza non si vedevano più……..”.
Rasputin, al contrario, era stato sedotto dalla giovinezza e dalla bellezza di quel giovane che, alla fine del 1916, quando apparve evidente il suo ruolo disorganizzatore, sentì quell’antipatia tramutarsi in odio e condurlo, per gradi, all’idea di un omicidio salutare.
Risoluto ad ucciderlo, il principe confidò il suo progetto al Capitano Sergei Mikhailovich Sukhotin ed al Granduca Dmitrij Pavlovič Romanov, che entrambi approvarono e gli offrirono la loro complicità. Per un capriccio crudele della sorte, sembra che il “mugico” sia stato attirato verso Jusupov da una sincera simpatia; infatti, accecato dal Dio che evidentemente desiderava perderlo, parlò a Jusupov delle sue relazioni con i “paltò verdi” (gli agenti dello spionaggio) e gli espose una specie di programma politico, da lui stesso preparato, un simulacro di rivoluzione insomma, che gli avrebbe permesso di strappare allo Zar una pace immediata ed un abbozzo di riforma agraria, che avrebbe mandato la classe contadina al potere. Jusopov conobbe quindi il tradimento di colui che già fortemente odiava.
I congiurati, Sukhotin, Romanov e Jusopov, scelsero come luogo più favorevole al loro progetto una cantina ed invitarono la vittima designata a bere del vino speciale. La cantina, o piuttosto la tomba, fu trasformata in uno studio sontuoso. A suo agio e sorridente, camminò in lungo ed in largo per la sala. Chiese anche del the, che bevve con gusto. Alle due del mattino, uno dei suoi carnefici lo invitò ad ammirare un crocifisso di cristallo che guardò con immobile contemplazione.
Poi, una detonazione; con un proiettile conficcato nel cuore, Rasputin cadde su di una pelle d’orso che ornava il pavimento del locale, con un ruggito di disperazione. Sukhotin indossò i vestiti del morto, per far credere a possibili testimoni che lo staretz, forse un po’ ubriaco, era ancora vivo, mentre il suo cadavere, nella nebbia della notte, venne caricato su di un’auto e buttato nelle gelide acque del Neva sulle quali, nel 1703, fu fondata San Pietroburgo. Due giorni dopo, il 18 dicembre 1916, il suo corpo fu restituito dal fiume, trasportato all’ospizio di Tchema, ricomposto e vegliato da una suora, di nome Akulina.
Nelle mani giunte, con il crocifisso, gli fu messa una lettera di addio della zarina. “Dammi la tua benedizione, caro martire, perché essa mi accompagni nel cammino doloroso che ho ancora da percorrere quaggiù. Pensa a noi nelle tue sante preghiere. Alessandra”.
Lo Zar non osò far arrestare gli assassini, comunque mandati in esilio, ed annunciò che il corpo di Rasputin sarebbe stato sepolto nella natia Pokrovskoe. E così fu. La sua sepoltura venne profanata il 10 marzo 1917 dai soldati della rivoluzione ed il cadavere bruciato.
Velleitario in politica come in teologia, egli non potè assoggettarsi, né allo Stato, né alla Chiesa. Senza freni, senza onore, venale, furbo, dissipatore e traditore, non fu altro che un contadino e nei suoi errori più grandi, nelle sue tare più pesanti, conservò una certa grandezza. Certamente traditore del suo Paese, non tradì mai gli interessi della sua classe, che lo venerava.
Rasputin volle ed ottenne di raggiungere Dio, senza spogliarsi della carne. L’estrema diversità dei suoi aspetti caotici proveniva, in definitiva, da una malattia del sentimento religioso.