Nobiltà al tempo di Dante

Nel XIV secolo, il periodo storico in cui vive Dante la nobiltà come titolo non dipendeva da un titolo giuridico, piuttosto dall’antichità della famiglia e dal ruolo sociale all’interno della città. I nobili o meglio definiti come uomini gentili, locuzione derivante dal termine latino gens, dovevano essere ricchi ed avere almeno un antenato noto ed importante. A Firenze c’erano gli Uberti e i Donati, famiglie prestigiose del tempo che vantavano antiche origini, fin dai tempi di Catilina, famiglie che contavano antenati fin da 150 anni. La Firenze di Dante non è più un piccolo borgo bensì una delle città più ricche d’Europa, a tal punto da contare un numero di abitanti al pari di una metropoli. Dante nel corso della sua esistenza e con la scrittura di pregevoli opere assume diverse opinioni riguardo il concetto di nobiltà, nel Convivio dichiara che la nobiltà di sangue non esiste mentre nel Monarchia cambia decisamente opinione affermando che gli uomini sono nobili per virtù sia propria sia dei propri antenati. Giunge poi a scrivere la Divina Commedia, il suo grande capolavoro dove nel Paradiso addirittura rivela la nobiltà degli Alighieri che fa discendere dal suo avo più illustre Cacciaguida. Il suo antenato era stato un cavaliere ma su questo ruolo Dante si sofferma affermando che essere cavalieri non significava essere nobili, ma si poteva diventare tali anche acquistando il titolo con il denaro, per questo i cavalieri erano esclusi dal governo.

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