Il Nuovo Testamento, rivisto e corretto
In quanti sanno che il famoso episodio dell’adultera, che in Nazzareno salva dalla lapidazione con la frase: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, non apparteneva originariamente al Vangelo di Giovanni, ma fu aggiunto da uno sconosciuto copista? Fatti del genere sembrano incredibili e si potrebbe pensare che siano clamorose eccezioni. Ma non è così. Errori, aggiunte, varianti e modifiche sono invece la regola, nella lunga e complessa storia, dalla stesura dei primi Vangeli al testo che oggi leggiamo. Anzi, le manipolazioni erano così comuni che l’autore de “L’Apocalisse”, l’Apostolo Giovanni appunto, minacciò di dannazione chiunque avesse osato aggiungere o togliere qualcosa dal suo componimento.
Tutti pensano, perlopiù, di leggere nel Nuovo Testamento, se non proprio le parole esatte pronunciate da Gesù, almeno quelle scritte dai vari autori dei testi che lo compongono. La verità è che di nessun Vangelo possediamo il manoscritto originale e, per quasi millecinquecento anni, fino all’invenzione della stampa (del tedesco Johann Gutenberg, Magonza 1400-1468), le copie che tramandavano la tradizione cristiana subirono infinite vicissitudini e furono ripetutamente trascritte a mano da scrivani, talvolta distratti o stanchi, talaltra incolti, sempre e comunque, profondamente influenzati dalle controversie culturali, politiche e teologiche della loro epoca.
Pertanto, le copie più o meno antiche giunte a noi, differiscono tra loro in una miriade di punti. Alcune discrepanze sono insignificanti, ma altre toccano nodi centrali della dottrina, come, ad esempio, la natura divina di Cristo o il mistero trinitario e sono il frutto di alterazioni, sia intenzionali che accidentali, prodotte da chi le trascriveva.
Marco rivelava che, avvicinato da un lebbroso che voleva essere guarito, Gesù si adirò, stese la mano per toccarlo e disse: “Guarisci”. Gli scribi ebbero sicuramente difficoltà ad attribuirgli l’emozione della collera in questo contesto e, di conseguenza, modificarono il testo per affermare, invece, che lui provava “compassione” per quell’uomo.
E’ possibile che ad indurre gli amanuensi a modificare il testo fosse qualcosa di più del semplice desiderio di rendere maggiormente comprensibile un brano ufficiale. Uno dei punti fermi del dibattito fra i detrattori pagani del cristianesimo ed i suoi difensori intellettuali riguardava la condotta di Gesù, cioè se si fosse, o no, comportato in un modo degno di colui che sosteneva essere figlio di Dio.
Da notare, che la disputa non verteva sulla possibilità di concepire che un essere umano potesse essere anche in qualche modo divino. Pagani e cristiani erano assolutamente d’accordo, poiché anche i primi conoscevano divinità diventate umane e perfettamente integrate con gli altri viventi sulla terra. La questione era, piuttosto, se il futuro Salvatore avesse sempre agito in maniera tale da giustificare il fatto di ritenerlo Figlio di Dio, o se, invece, i suoi atteggiamenti e comportamenti escludessero tale possibilità.
In quel periodo storico, tra i pagani era ormai opinione diffusa che gli dei fossero soggetti alle futili emozioni ed ai capricci dei comuni mortali, ma che fossero, di fatto, superiori a queste cose. Come era possibile, dunque, stabilire se un individuo fosse o no un essere divino? E’ ovvio che avrebbe dovuto esibire poteri (intellettuali o fisici) sovrumani, ma avrebbe anche dovuto comportarsi in un modo compatibile con la pretesa di provenire dal Regno dei Cieli.
Vi sono diversi autori dell’epoca che sostenevano che gli dei non si “adiravano”, perché l’ira era un’emozione umana, provocata da una profonda frustrazione nei confronti degli altri, dalla sensazione di aver ricevuto un torto, o da qualche altro futile motivo. I cristiani, dal canto loro, potevano senz’altro affermare che Dio era “irritato” con il suo popolo per la cattiva condotta di quest’ultimo. Ma anche il Dio cristiano era superiore a qualunque moto di irritazione.
Nella vicenda su Gesù ed il lebbroso, però, non esiste alcun motivo evidente per cui egli debba adirarsi. Considerando che il testo fu modificato durante il periodo in cui pagani e cristiani discutevano se Cristo si comportasse in maniera appropriata alla sua divinità, tutto sommato è possibile che lo scriba lo abbia variato alla luce di tale controversia. In altre parole, potrebbe trattarsi di un cambiamento a fini apologetici.
Un’altra alterazione di questo genere figura diversi capitoli più avanti, nel Vangelo di Marco, in un famoso episodio nel quale i concittadini di Gesù si meravigliano che egli potesse impartire insegnamenti tanto straordinari e compiere atti tanto eccezionali. Nel loro stupore si chiedevano: “Non è costui un carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda, di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. Com’era era possibile, allora, che qualcuno, cresciuto come uno di loro, la cui famiglia tutti conoscevano, fosse in grado di fare cose simili? Questo è l’unico brano del Nuovo Testamento in cui Gesù viene definito carpentiere. Il termine usato, “tekton”, in altri testi greci viene di solito usato per indicare chiunque fabbrichi oggetti con le proprie mani; in alcuni scritti cristiani, più tardi, si dice che il Nazzareno avesse costruito “aratri e gioghi”. Non costruiva certo mobili di pregiata fattura. Il modo migliore per avere l’esatta percezione di questo termine è paragonarlo a qualcosa di più vicino alla nostra esperienza; sarebbe come definire Gesù un semplice legnaiolo, un artista del legno.
Torna allora la domanda: “Come poteva qualcuno con “simili” origini essere il Figlio di Dio? Era un interrogativo che gli avversari pagani del cristianesimo prendevano molto sul serio, anzi, la consideravano una domanda retorica. Era ovvio che non poteva essere il figlio di Dio se si trattava soltanto di un “tekton”.
Soprattutto il critico pagano Celso (letterato, probabilmente di origine greca, vissuto alla fine del II secolo, durante il regno di Marco Aurelio) schernì i cristiani a questo proposito, collegando l’affermazione che Gesù fosse un povero falegname al fatto che fu crocifisso (su un palo di legno) e alla fede cristiana ne “l’albero” della vita. Il suo avversario cristiano, Origene (vissuto quasi un secolo dopo), dovette prendere in seria considerazione l’accusa che Gesù fosse solo un “tekton”, ma, stranamente, non affrontò fornendo delle concrete spiegazioni, bensì negando tutto: “Celso non vede neanche che in nessun luogo dei vangeli accettati nelle Chiese sta scritto che Gesù stesso era un falegname”, scrisse.
Come va interpretata questa smentita? Origene aveva dimenticato Marco, oppure era in possesso di una versione del testo che “non” rivelava che il Cristo era un semplice artigiano. Si dà il caso che esistono manoscritti con una versione contraria. Nella più antica trascrizione del Vangelo di Marco, denominato P45 e risalente all’inizio del III secolo (l’epoca di Origene), il versetto è completamente diverso. Si dice: “Non è costui il figlio di un falegname?”. Invece di essere un falegname, qui è soltanto il figlio di un falegname. Così, come Origene aveva motivazioni di ordine elogiativo, per negare che Gesù fosse stato mai definito falegname, è plausibile che anche lo scriba abbia modificato il testo per contrastare l’accusa pagana, secondo cui Gesù non poteva essere il Figlio di Dio perché era soltanto un “tekton” dei ceti inferiori.
Un altro brano, che sembra essere stato rivisitato per ragioni apologetiche, è quello di Luca che tratta della crocefissione. La traduzione del versetto nella New Revised Standard Version (Nuova Versione Standard Riveduta del Nuovo Testamento), dice: “Anche altri due, che erano malfattori, venivano condotti per essere giustiziati insieme a lui”. Ma per il modo in cui è formulato, in greco, la frase potrebbe anche essere tradotta: “Altri due, anch’essi malfattori, venivano condotti per essere giustiziati insieme a lui”. Data l’ambiguità del greco, non sorprende che alcuni copisti abbiano ritenuto necessario, per i già citati motivi, risistemare l’ordine delle parole ed indicare, senza possibilità di errore, che i criminali erano gli altri due e non Gesù.
Esistono altre modifiche nella tradizione testuale che sembrano essere determinate dal desiderio di mostrare che il vero Figlio di Dio non si sarebbe potuto “sbagliare” in una delle sue affermazioni, specie riguardo al futuro (come Figlio di Dio avrebbe saputo ciò che doveva accadere).
Potrebbe essere stato questo a condurre alla rielaborazione già analizzata da Matteo, dove Gesù dichiara, in modo esplicito, che nessuno sa il giorno e l’ora in cui verrà la fine; “neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre”. Un numero significativo di manoscritti omette “neppure il Figlio”. Non è difficile immaginare la ragione. Se Gesù conosce il futuro, la rivendicazione cristiana secondo la quale è un essere divino, risulterà non poco compromessa.
Un esempio meno ovvio si presenta in Matteo, nella scena della crocefissione, dove si legge che, sulla croce, Gesù ricevette da bere del vino misto a fiele. Numerose pagine riportano invece che non gli fu dato del vino, ma dell’aceto. Il cambiamento potrebbe essere stato effettuato per uniformare meglio il testo al brano dell’Antico Testamento, citato per spiegare questo atto, il Salmo 69,22. Tuttavia sarebbe lecito chiedersi se gli scribi avessero avuto anche altri motivi. E’ interessante ricordare che nell’ultima cena, in Matteo 26,29, dopo avere passato il calice di vino ai suoi discepoli, Gesù afferma, con fare determinato, che non berrà più vino finché non sarà nel regno del Padre. La variazione del vino in aceto era forse intesa a salvaguardia di quella previsione, così che di fatto non gustasse vino dopo avere sostenuto che non sarebbe successo?
O ancora, si potrebbe prendere in esame l’alterazione della previsione di Gesù al sommo sacerdote ebreo nel suo processo in Marco. Alla domanda se egli sia il Cristo, Figlio di Dio, risponde: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo”. Considerate in genere da molti studiosi moderni l’espressione o l’approssimazione di un autentico detto di Gesù, queste parole si sono rivelate causa di disagio per molti cristiani, a partire dal periodo intorno alla fine del I secolo. Perché il figlio dell’uomo non arrivò mai sulle nubi del cielo. Ma allora perché Gesù predisse che il sommo sacerdote stesso l’avrebbe visto arrivare?
La risposta storica potrebbe benissimo essere che il Nazareno riteneva in effetti che il Sommo Sacerdote lo avrebbe visto, ossia che ciò sarebbe accaduto nell’arco della sua vita. Nel contesto dell’apologetica del II secolo, però, questa avrebbe senza dubbio potuto essere interpretata come una previsione errata. Non meraviglia che una delle più antiche testimonianze di Marco modifichi il versetto eliminandone le parole incriminate, così che Gesù dica soltanto che il Sommo Sacerdote vedrà il Figlio dell’uomo seduto alla destra dell’Onnipotente sulle nuvole del cielo. Non resta menzione dell’imminente comparsa di colui che, di fatto, non venne mai.
In sintesi, molte parti degli scritti superstiti sembrano esprimere le preoccupazioni apologetiche dei primi cristiani, soprattutto in relazione al fondatore della loro fede, Gesù. Proprio come con i conflitti teologici nella Chiesa primitiva, con la questione del ruolo delle donne e con le dispute degli ebrei, così accadde anche con le polemiche che infuriavano fra i cristiani e i loro colti antagonisti fra i pagani. Tutte queste controversie influirono sui testi che alla fine sarebbero diventati parte di quello che ora chiamiamo Nuovo Testamento, poiché questo libro (o meglio questa serie di libri) fu copiato da amanuensi non professionisti nel II e nel III secolo e, di tanto in tanto, fu alterato alla luce del contesto sociale di quei tempi.
Tentavano di comprendere ciò che gli autori avevano scritto e, nel contempo, volevano capire come le parole di quei testi avrebbero potuto aiutarli a dare senso alla loro situazione ed alla loro stessa vita.