L’America fratricida (seconda parte)
Come descritto nella prima parte, la rivoluzione industriale aveva conquistato la più completa e totale vittoria. La produzione bellica aveva già impresso alle manifatture del settentrione uno slancio inaudito. Ora, nella calda serra del “protezionismo”, queste andavano prosperando, anche se numerosi gruppi capitalistici e politici del Nord si mostravano tiepidi o avversi nei confronti delle misure protezionistiche. Del resto, il quadro delle vicende umane è sempre complesso e non si presta a schematizzazioni. La concreta realizzazione della rivoluzione industriale fu, in soldoni, la trasformazione dell’economia americana da fondamentalmente agricola a prevalentemente industriale.
I vinti non furono, però, soltanto a sud del Fiume Potomac. Anche le classi popolari ed i piccoli contadini ne fecero le spese. E’ pur vero che costoro avevano comunque conquistato una grande vittoria con lo “Homestead Act”, la legge del 1862 che offriva, liberamente e gratuitamente, migliaia e migliaia di ettari di fertile terra nell’Ovest. La loro massiccia partenza sottrasse, inevitabilmente, una forte manodopera alle attività industriali dei rinnovati ceti capitalistici, che venne altresì rimpiazzata, con l’avvento della normativa sull’immigrazione (1864), intesa ad aprire senza impedimenti le porte degli Stati Uniti a immense folle di poveri e di oppressi, che poterono così fuggire dall’Europa e trovare in America condizioni di vita e di lavoro, in tutti i casi, migliori e più libere di quelle del Vecchio Continente.
Ma perché questa guerra fratricida? Senza tener conto di una serie di elementi di ordine politico, etico, psicologico e culturale, non è possibile arrivare ad una chiara spiegazione degli eventi. Non bisogna dimenticare che la storia, in ultima analisi, è fatta dagli uomini, è fatta dagli individui e non dai gruppi, anche se lo studio attento delle forze economiche, della dinamica delle classi e della psicologia di gruppo è, sicuramente, di prezioso aiuto allo storico.
Il tema sostanziale della lotta non fu dato né dalla questione della schiavitù, né da quella del centralismo degli Stati, né, infine, dal duello tra capitalismo industriale ed “elite” agraria, ma da tutte queste cose insieme, fuse nel quadro, ben più vasto, di un’atavica controversia: l’Unione americana doveva essere “una sola nazione o due?”. Qui va individuato il nocciolo del problema. Per questo, più che alla Rivoluzione Francese, viene da pensare al nostro Risorgimento ed alla susseguente questione meridionale italiana. Naturalmente, considerando questa comparazione come assai relativa e da non prendersi alla lettera.
Paradossalmente, la “Guerra di Secessione Americana” fu intesa, infatti, dagli stessi partecipanti, più che una guerra intestina, una lotta tra due nazionalità estranee tra loro e l’assenza di questo carattere fu uno dei fattori determinanti che impedì la degenerazione del conflitto in una catena di rappresaglie e di atrocità (come inevitabilmente avviene quando le guerre civili sono realmente tali), grazie anche, e soprattutto, alla profonda civiltà democratica di quel popolo, educato da sempre alla tolleranza delle opinioni altrui ed al rispetto della libertà di dissenso, anche nel nemico in armi.
L’Ottocento fu definito “il secolo delle nazionalità” e l’America non fece eccezione alla regola. Essa dovette vivere il dramma di due processi contrastanti, nessuno dei quali sarebbe potuto sbocciare completamente senza annullare l’altro. Il primo era di unificazione, il secondo di separazione. Il primo tendeva ad armonizzare e a fondere insieme quelle sezioni isolate, o non ancora ben omogeneizzate, in una sola; il secondo a dare una individualità ben definita ad un gruppo che ancora non l’aveva raggiunta.
Anche se non sottoposti, in alcun modo, ad atrocità che potevano generare sentimenti di vendetta, i sudisti furono, non di meno, umiliati, sottomessi e lasciati in uno stato d’animo di profonda frustrazione. Il Sud aveva voluto la secessione perché non intendeva più sopportare di rimanere nell’Unione come una minoranza tollerata, “bollata” come schiavista, che non meritava né aiuto né pietà. Questa classificazione fu un abile colpo da maestro sferrato dai nordisti. L’Europa, per una serie di ragioni (non ultima, come già accennato, la scarsa conoscenza di fondo dei problemi americani), fu facilmente indotta a credere ciò che il Nord voleva venisse creduto.
La schiavitù non fu, in realtà, “la causa” della guerra, non nel senso moralistico che a lungo prevalse nell’interpretazione italiana. Abraham Lincoln non era, né mai fu, un abolizionista; Robert Edward Lee, il più grande generale sudista, era ostile allo schiavismo. Tutto ciò non mette, ovviamente, in discussione né la nobiltà delle intenzioni dei gruppi abolizionisti, né l’onestà e la purezza di intenti con cui più di un nordista andò a combattere, sacrificando la propria vita per questo ideale. Anche se il risultato più nobile e duraturo della guerra, la liberazione degli schiavi, giunse in pratica molto dopo il 1865, per essere sfruttato in un modo e con sistemi che, di fatto, danneggiarono la causa stessa dei negri e resero più difficile il loro inserimento nella nuova comunità americana.
Nessuno può affermare con certezza se l’emancipazione si sarebbe ottenuta anche senza guerra ed in quanto tempo. Di sicuro, “la questione negra”, fu la prima, gravosa eredità lasciata che, usata costantemente come strumento di manovra per i fini politici dal Partito Repubblicano, finì, appunto, per nuocere alla gente di colore. Quella parità civile e politica che il XIV Emendamento aveva promesso e garantito, arrivò in quel Paese con circa un secolo di ritardo.
Oltre a ciò, il citato “Homestead Act”, quello che aveva liberalizzato la libera marcia verso le terre del West di una vera e propria marea umana, portò alla reazione selvaggia dei nativi americani, i “pellerossa”, che, sentendosi minacciati nei loro domini di caccia dalla zappa dei coloni, dissotterrarono “l’ascia di guerra”. Cominciò così, il terribile periodo delle guerre indiane che, tra uccisioni e stragi, si chiuse solo alcuni decenni più tardi, con la totale sottomissione dei pellerossa e la liquidazione della “frontiera”, in seguito alla colonizzazione dell’intero Demanio.
La Guerra Civile non aveva certo creato uno stato. Il Presidente Lincoln, animatore e guida del “risorgimento americano”, sapeva benissimo che le nazioni si fanno con il ferro e con il sangue. Anche tutti coloro che si batterono, da entrambe le parti, erano di questo parere, come testimoniano le innumerevoli lettere scritte dal fronte. Tuttavia, la guerra, essendo la continuazione della lotta politica, sviluppò ulteriori forze latenti e, se non creò la nazione, costituì un’indubbia tappa lungo tale via. Così luce e ombra, costruzione e distruzione si mescolarono irrimediabilmente nella vicenda umana.
Che, poi, ciò sia stato meglio o peggio, che veramente altra soluzione non esistesse, che la vittoria e lo sviluppo di un tipo di società fondata sull’industrialismo abbia rappresentato un effettivo progresso rispetto ad altre forme, sono tutti problemi che trascendono i limiti della nostra estraneità. Del resto, se il cammino scelto sia stato il più breve o se ne sarebbe potuto preferire uno più lungo ma meno aspro e se solo con il sangue sia stato possibile raggiungere il risultato desiderato, questo lo si può affermare solo con Socrate, quando dice: “E’ oscuro a tutti, tranne che a Dio”.
Certamente, attraverso mille fatiche, errori e sofferenze, l’umanità progredisce sostanzialmente verso un livello più alto di libertà.