La globalizzazione moderna? Partì dall’Italia sul finire del ’43
Il tanto abusato concetto di globalizzazione non è mai stato così presente nella mente dell’Umanità da quando, purtroppo e maledettamente, abbiamo scoperto il Covid-19. Anche negli ultimi giorni, allo scoccare del nuovo allarme per la scoperta della cosiddetta “variante inglese del virus”, più contagiosa e quindi potenzialmente più pericolosa, abbiamo dovuto prendere atto di quanto siamo talmente interconnessi da far viaggiare una minaccia microscopica ancor prima della sua diffusione mediatica. Infatti, come comunicato da tutte le agenzie di stampa nelle ultime ore, la variante inglese non si è palesata solo in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, ma ha raggiunto con estrema facilità addirittura il Giappone dall’altra parte del pianeta!
Il termine, mutuato originariamente da diversi concetti economico-finanziari del capitalismo occidentale, adoperato principalmente a partire dagli anni ’90 per indicare una serie di fenomeni connessi al veloce sviluppo dell’integrazione economica, sociale e culturale del mondo, nasconde però molto più di quello che crediamo.
Come diceva il mio autore preferito, il grande e misterioso Edgar Allan Poe, «il posto migliore per nascondere una cosa è in piena vista» e pare che, grazie alla disattenzione dei tanti, tale fenomeno sia partito in tempi non sospetti, nascosto alla luce del sole, come al solito durante quella Seconda guerra mondiale di cui vi parlo spesso. In Italia gli effetti di quel tremendo conflitto, così lacerante soprattutto dall’Armistizio dell’8 settembre, la famosa resa incondizionata tanto decantata come nuova alleanza, si propagarono a macchia d’olio dividendo il nostro paese in due e creando letteralmente diverse entità politiche di cui una, quella occupata dagli Alleati, il sud, avrebbe iniziato prima del resto del mondo la corsa verso una reale moderna globalizzazione.
Il 1° ottobre del 1943, infatti, quando i primi militari britannici entrarono nella Napoli già liberatasi da sola grazie alle famose 4 giornate, il volto del nostro Paese cambiò per sempre. Esattamente un mese dopo quell’ingresso trionfalistico (non trionfale attenzione!), il 1° novembre 1943, i nuovi “alleati” occupavano, per scopi militari, il Museo Nazionale di San Martino, Castel Nuovo (Maschio Angioino), il Palazzo Reale di Napoli e la Biblioteca dell’Istituto Orientale e a pochi giorni di distanza trasferivano il proprio Quartier generale alla Reggia di Caserta, il palazzo borbonico protagonista assoluto del resto della guerra nel Vecchio Continente.
Di conseguenza proprio dalla Campania si avviò, con piccoli ma significativi segnali, la globalizzazione di un’Italia frastornata da un conflitto non solo fisico ma, forse, ancor più ideologico. Infatti, se nel Palazzo Reale s’erano velocemente installati il Comando della NAAFI-EFI, ovvero della Navy, Army and Air Force Institutes, e della Expeditionary Force Institutes, istituzioni culturali, commerciali e ludiche americane, e al Palazzo Troise s’era insediata l’ENSA, il dipartimento che si occupava di tutti gli spettacoli per le truppe inglesi, nei locali UPIM le merci italiane furono subito sostituite da quelle dei NAAFI Stores, esercizi commerciali dove si vendevano tutti i prodotti usati dagli angloamericani come le famose ciambelle doughnuts, le sigarette americane, le tavolette di cioccolato militare, la carne in scatola o le “gomme da masticare” (chewing gum). Ma non furono solo le merci d’oltreoceano a colpire un immaginario collettivo che oggi ci ha trasformati in una società totalmente consumistica, un modus vitae dov’è vietato riparare i prodotti per favorirne il continuo acquisto di nuovi, anche grazie alla ben studiata strategia dell’obsolescenza programmata. La vera globalizzazione iniziò, di fatto, quando i comportamenti, le abitudini, le differenze culturali di due popoli così diversi, americani e italiani, iniziarono quel processo di mescolamento, di condivisione forzata di valori anche degli aspetti sociali quotidiani.
Ad esempio a Caserta, dove abbiamo detto fu creato il grande HeadQuartes alleato nella Reggia vanvitelliana, gli italiani iniziarono a vivere direttamente i modernissimi concetti di emancipazione femminile tipici della cultura anglosassone dell’epoca. Le WACs (Women’s Army Corps) e le crocerossine americane, accompagnate dalle QAIMNS (Queen Alexandra’s Imperial Military Nursing Service) britanniche, facevano bella mostra di sé soprattutto a Caserta e Napoli, vestite con divise femminili, con gonne al ginocchio, lavorando con estrema perizia anche nei ruoli tecnici che, secondo l’italico pensiero collettivo coevo, erano da riservare agli uomini. Una rivoluzione indescrivibile, soprattutto se si ricorda che gli americani iniziarono anche ad arruolare ragazze italiane diplomate, ovviamente non proprio facilmente reperibili sul mercato del lavoro degli anni ’40 e in piena guerra, perché considerate sicuramente più capaci dei colleghi uomini di lavorare rulli e fotografie della ricognizione aerea, quindi nell’individuazione e classificazione di informazioni sensibili.
Ma se proprio vogliamo trovare il vero segno dell’inizio di questa avventura globalizzata e globalizzante, che trovò nel sud un terreno particolarmente fertile per le pregresse esperienze storiche, allora dobbiamo riferirci con estrema semplicità ad una particolare canzone di quegli anni: Tammurriata nera di E.A. Mario.
Una canzone scritta nel 1944 come diretta conseguenza di ciò che stava accadendo nella Napoli occupata del Secolo breve, in una città dove la povertà costringeva diverse donne a prostituirsi soprattutto con chi poteva pagare, quindi con i militari, ma dove nacquero anche diversi amori e, ovviamente, i primi frutti di relazioni multietniche: «chill u fatt è nir nir comma a che». Un brano che, ironizzando anche in senso velatamente offensivo, ma in modo sostanzialmente normale per la mentalità di quel periodo, mostrava chiaramente l’avvio di una globalizzazione non solo economica e militare, leggasi l’allineamento al blocco occidentale e al Patto Atlantico che sarebbe arrivato in breve tempo, ma anche e soprattutto di costumi sociali, di una nuova mentalità che avrebbe via via scardinato alcune odiose restrizioni ideologiche dell’Italia arretrata e piena di contraddizioni di inizio ‘900. Un nuovo percorso, di cui continueremo a parlare nei prossimi articoli, che avrebbe regalato i primi giusti diritti alle donne e una progressiva seppur lenta laicizzazione dello Stato, necessaria evoluzione in grado di ammodernare e catapultare finalmente il Paese verso il nuovo millennio.